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La rana e il bambu’ 2. Tutto cambia, niente cambia.

By 25 Settembre 2016 Marzo 29th, 2018 No Comments

La rana e il bambù 2. Tutto cambia, niente cambia.istock_13762780_largeNon sono mai stato sicuro che la morale della storia di Icaro dovesse essere: “Non tentare di volare troppo in alto”, come viene intesa in genere, e mi sono chiesto se non si potesse interpretarla invece in un modo diverso: “Dimentica la cera e le piume, e costruisci ali più solide.”
(Stanley Kubrick) 

Nel post La Rana e il Bambù (post dell’11/9/16) avevo raccontato tre storie con l’obiettivo che pensar non nuoce.
Questa settimana, integro volentieri le tre storie con altre due, scritte, ma soprattutto vissute, da Cristiano e Alessandro, per riflettere e parlare di cambiamento, o meglio d’incapacità nel cambiare, esempi di come la follia possa assumere sempre forme apparentemente diverse ma, alla fine, uguale negli effetti devastanti.
Così la rana non è bollita solo lentamente, ma anche lietamente e nella falsa illusione di aver ottenuto grandi risultati…

Scelte sbagliate uccidono la rana…
(di Cristiano Previtali – Heiko Xplore)
 
La parte del post di Massimo che parla della rana bollita, mi ricorda molto la mia prima esperienza lavorativa, in un’azienda molto famosa che nei primi anni ottanta era leader mondiale nella produzione di computer.
Ci ho lasciato una parte del mio cuore.
 
Ho iniziato a lavorare nell’89 e l’ambiente di questa azienda era veramente fantastico: benefit di ogni tipo per le persone, stipendi molto più alti rispetto alla media, orari flessibili, fondo interno mutualistico per i dipendenti e molto altro.
Era la fabbrica ideale in cui ognuno di noi sperava di lavorare.
Questa stupenda esperienza è durata 18 anni, con una parabola discendente culminata con la chiusura di uno dei più grandi stabilimenti italiani del gruppo.
 
Non voglio entrare nel merito delle strategie internazionali che hanno portato al declino, ma vorrei fare una riflessione sul management coinvolto.
 
Lo stabilimento è nato nel 1966. Aveva vissuto anni di incremento di fatturato e aggiunto produzioni. Erano gli anni in cui tutto quello che veniva prodotto era facilmente vendibile, un quasi monopolio.
Nel 1989 al mio ingresso ho trovato personale molto preparato e tecnologie di altissimo livello.
Il mondo dell’elettronica e dei PC nel frattempo stava cambiando a una velocità spaventosa: dalle macchine perforatrici meccaniche, ai computer enormi per pochi, ai Personal Computer, padri (o nonni) di quelli che conosciamo ora.
I primi segnali di cambiamento erano ben visibili, ma forse mal interpretati.
 
Il salto di dieci anni ci porta al gennaio 2000; la multinazionale decide di abbandonare i siti produttivi e li “cede” ad un’altra multinazionale canadese specializzata nella costruzione di schede elettroniche.
Il cambiamento è subito percepibile, quasi ovunque: da quel momento è necessario iniziare a cercare clienti nuovi; inoltre poiché eravamo nel mercato del contract manufacturing, bisognava competere con tutti gli altri. Nuove sfide che avrebbero dovuto portare a cambiamenti radicali nel modo di condurre l’azienda.
Ma niente, o comunque, molto poco, di tutto questo è successo.
Il management non si è accorto di come si stava profondamente modificando il mondo e l’azienda stessa.
La strada era scritta ma tutti continuavano a negare l’evidenza riproponendo gli schemi conosciuti che avevano funzionato in passato. Come sul Titanic l’orchestra continuava a suonare nonostante l’impatto con l’iceberg.
 
Chi ha vissuto insieme con me questi eventi, sa quanto abbiamo provato a svegliare dal torpore i vari manager, provando a mostrare loro quale fosse la realtà; forse erano troppo assopiti dal tepore della comodità dei loro uffici e troppo spaventati dal dover cambiare qualcosa. I segnali non erano poi cosi deboli.
La cronaca parla di una nuova cessione nel 2005, qui ormai la nostra rana era bollita.
Una cessione che sapeva tanto di resa.
 
La mia esperienza è terminata nel 2006; ho voluto scrivere queste poche righe per ricordare le 400 famiglie, tanti amici e qualche collega, che dal 2006 al 2015 hanno dovuto subire ogni tipo di abuso avendo come sola colpa quella di averci provato fino in fondo a difendere uno dei migliori stabilimenti al mondo di costruzione di schede elettroniche.
 
Più è grande il potere che abbiamo, più è grande la nostra responsabilità.
Dobbiamo quindi saper leggere anche i segnali deboli, ascoltare e provare a cambiare, anche se il cambiamento ci spaventa.
(Cristiano P.)

Dal settore elettronico all’automobile.

Quando la disperazione non basta…
(di Alessandro Pugliesi – Heiko Xplore)
 
Dopo la laurea in Ingegneria conseguita alla fine degli anni ’90, ero stato assunto in un’azienda metalmeccanica, fondata agli inizi degli anni ’50; azienda che era diventata una delle più prestigiose aziende fornitrici del principale costruttore auto domestico, fino a tutti gli anni ’80.
Proprio in quegli anni il mercato automotive aveva iniziato a cambiare: il principale costruttore italiano aveva affrontato la sfida dell’internazionalizzazione e concorrenti stranieri si affacciavano sul mercato italiano portando qualità e prezzi competitivi.
Il cambio di scenario aveva coinvolto l’intera catena di fornitura e la mia azienda, considerata semplice specialista di prodotto, era stata quindi declassata a fornitore di secondo livello.
Il passaggio era stato graduale ed era proseguito per tutti gli anni della mia esperienza lavorativa. Man mano che le vecchie produzioni, destinate al cliente finale, si esaurivano, venivano sostituite con prodotti destinati ai nuovi clienti, multinazionali straniere fornitrici di primo livello.
All’epoca lavoravo nella funzione qualità, con il compito di interfacciarmi con i clienti per l’assistenza tecnica.
 
Il mondo che vedevo era ben diverso da quello che i manager anziani percepivano all’interno della fabbrica, tuttavia le ricette utilizzate per la gestione dell’azienda continuavano a essere quelle che avevano funzionato in un contesto completamente diverso.
La competizione si stava allargando a livello internazionale, tuttavia si continuavano ad applicare le regole di ingaggio in uso quando il cliente era uno, italiano e vicino.
Proprio in questo contesto, ho trovato interessante la frase del post citato:
(…) Ci mostra che un deterioramento abbastanza lento sfugge alla nostra coscienza e non suscita il più delle volte alcuna reazione, opposizione o rivolta da parte nostra. (Olivier Clerc – opera citata)
 
Come conseguenza dei cambiamenti sopra descritti, all’inizio degli anni 2000, l’azienda si era trovata a dover affrontare una pesante ristrutturazione per via della perdita di volumi produttivi e di margini di profitto.
 
Nell’ultimo periodo, prima del cambio di proprietà, si erano tentate le ultime disperate azioni di recupero, quali, ad esempio, assegnare ambiziosi obiettivi di crescita del fatturato (in massimo due anni) al Direttore Commerciale, piuttosto che richiedere al Direttore Generale di riportare l’azienda, sempre in pochissimo tempo, in profitto.
In sostanza il management stava tentando di applicare la soluzione indicata nel post della Rana e il Bambù:
(…) Quando una situazione è il prodotto di un’evoluzione (o involuzione) che si sviluppa sul lungo periodo, le soluzioni rapide e a breve termine che mettiamo in pratica sono generalmente inadatte, quando non concorrono, alla fine, ad aggravare la suddetta situazione.
(Olivier Clerc – opera citata)
 
I post di Massimo sono sempre fonte di ispirazione e a volte, come in questo caso, aiutano a rimettere in ordine il passato, darne un significato e a farne tesoro per il futuro.
 
L’immagine che mi è venuta in mente, ripensando a quella mia esperienza, è stata quella dell’aereo. E’ come se avessi lavorato su di un aereo in discesa costante verso terra: i segnali intorno dicevano chiaramente che il suolo si stava avvicinando, tuttavia nessuno sembrava avesse idea di come “tirare” la cloche. Per farlo occorreva accettare nuove regole del gioco dettate da un nuovo mercato sconosciuto.
Così come nell’aereo in picchiata, anche per un’azienda esiste un punto limite oltre il quale non è più possibile risollevarne le sorti, se non a patto di una lenta e travagliata risalita.
(Alessandro P.)

Le metafore dell’orchestra del Titanic e dell’aereo in picchiata, sono esempi di una follia trasformata in sistema di gestione aziendale e così, la rana bolle…fino a morire.

La bollitura della rana o la crescita del bambù sono processi così lenti da passare sotto traccia.
Processi di distruzione che nella loro lentezza e inesorabilità passano inosservati fino a quando le conseguenze diventano irreversibili.

Ritroviamo il fare e il pensare come attività fondamentali di chi ha la responsabilità della guida di un’organizzazione.
Pensare nel modo giusto significa riflettere sempre prima di agire, così da avere la certezza che l’azione si fondi sulla giusta intenzione e possegga la giusta motivazione. La giusta intenzione implica che l’azione sia di beneficio per il soggetto e per tutti coloro che saranno toccati dalle sue conseguenze; si tratta insomma di prendere in considerazione il proprio benessere e quello degli altri. Ciò è vero sia per gli individui che per le organizzazioni.
L’avere la giusta intenzione costituisce la prima parte del concetto buddista di giusta visione. La seconda parte consiste nel riconoscimento di tre aspetti della realtà: non esiste nulla di permanente ma tutto cambia; non esiste nulla di indipendente; non esiste nulla che sia privo di causa.
(…) La giusta condotta, altro concetto buddista, fa riferimento alla qualità delle azioni che un’azienda e i suoi dipendenti intraprendono come risultato di quella decisione.
(…) Le pratiche degli affari e i principi del buddismo mirano entrambi alla felicità e alla capacità di fare le giuste scelte. Non sono poi una coppia così strana: quando le aziende cominciano ad applicare la giusta visione e la giusta condotta, la loro capacità di creare fiducia, benessere e profitti aumenta in modo esponenziale.
(Dalai Lama con L. van den Muyzenberg – La via del comando)

Fiducia, benessere e profitti: tre parole chiave per l’azienda di domani.
Tre possibili obiettivi per un “fare” azienda che sia moderno, nuovo e sostenibile.

Forse, è il momento di tornare davvero a quello che conta.
Forse dobbiamo riflettere sul fatto che esiste una differenza tra essere convinti che il “fine giustifica i mezzi” e ragionare sul fatto che alcuni “mezzi” sono sbagliati.

Un grande economista, John Maynard Keynes, disse che “La più grande difficoltà nasce non tanto dal persuadere la gente ad accettare le nuove idee, ma dal persuaderli ad abbandonare le vecchie”.
Se non riusciamo ad abbandonare vecchie idee e vecchie ricette saremo costretti a ripetere il passato, incessantemente, continuamente.

Abbandonare vecchie idee, non tutte ma solo quelle inadeguate, è segno di intelligenza e di una mente che cerca nuove strade, non rimanendo impantanata nel solco di scelte vecchie, ingombre dei detriti di un passato che per fortuna è diventato storia.

Le aziende che staranno nel futuro con successo, scriveranno su una pagina bianca e non saranno una citazione ai margini di qualche vecchio libro di management o di economia.

Dopotutto siamo nel XXI secolo e non agli albori della rivoluzione industriale!

Design a better world and…
design a better leadership.

Buona settimana
Massimo

 

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