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Alvin Toffler e gli analfabeti del futuro.

By 13 Maggio 2018 Luglio 9th, 2019 No Comments

Design a better world: piccolo manifesto contro la presunzione, l’idiozia e l’ignoranza.

Più o meno a metà del suo best-seller Future Shock, Alvin Toffler raccontava il caso di un “barbuto soldato chindit”(unità di forze speciali dell’India britannica) il quale “combattendo con i reparti del generale Wingate dietro le linee giapponesi in Birmania, si addormentò, effettivamente, mentre una tempesta di pallottole di mitragliatrice si abbatteva intorno a lui”. (futurimagazine.it – Cosa ci ha insegnato Alvin Toffler e perché dobbiamo tornare a rileggerloRoberto Paura, 1 luglio 2016)
 
Alvin Toffler, saggista e futurologo, parlava dello “choc del futuro”, cioè di quello che è ora diventato il nostro presente.
 
Questo caso, che studi successivi dimostreranno non essere stato affatto isolato nel corso del secondo conflitto mondiale, divenne per il sociologo e futurologo americano la metafora della vittima dello “choc del futuro”. Immersa in un mondo in rapida e radicale trasformazione, senza più punti di riferimento, bombardata costantemente da stimoli che richiederebbero, in risposta, un adattamento continuo e immediato, la vittima dello choc del futuro preferisce lasciarsi trascinare dalla corrente piuttosto che impegnare le sue forze per restare a bordo. Forse non ce ne rendiamo conto, ma queste persone oggi sono tutte intorno a noi. Forse lo siamo noi stessi: persone rimaste indietro mentre il resto del mondo corre in avanti. Nel 1970 era questo il futuro previsto da Toffler, scomparso il 27 giugno scorso all’età di 87 anni: era il mondo in cui viviamo.
(Roberto Paura, articolo citato)
 
Invece di un “adattamento continuo ed immediato” queste “persone sono rimaste indietro mentre il resto del mondo corre in avanti”

Comportati in modo da aumentare le possibilità di scelta” suggeriva Heinz Von Foerster, esponente di spicco del costruttivismo.

L’approccio si dice costruttivista in quanto tiene in considerazione il punto di vista di chi osserva, di chi esamina; esso considera il sapere come qualcosa che non può essere ricevuto in modo passivo (come affezione del mondo esterno) dal soggetto, ma che risulta dalla relazione fra un soggetto attivo e la realtà. La realtà, in quanto oggetto della nostra conoscenza, sarebbe dunque creata dal nostro continuo “fare esperienza” di essa. La determiniamo dal modo, dai mezzi, dalla nostra disposizione nell’osservarla, conoscerla e comunicarla. Si forma nei processi d’interazione ed attraverso l’attribuzione di significati alla nostra esperienza. In questi processi il linguaggio ha certamente un ruolo fondamentale. La “costruzione” si poggia quindi su mappe cognitive che servono agli individui per orientarsi e costruire le proprie interpretazioni.
In sostanza ciascun individuo costruisce una sua “mappa di significati” personali, che gli consentano di vivere in quello che ciascuno sperimenta come il suo mondo.
(Wikipedia)

Aumentare i mezzi a disposizione per osservare la realtà, conoscerla e comunicarla diventa allora un’ottima strategia per aumentare l’efficacia personale.
Detto diversamente, è fondamentale continuare a imparare.
Teniamo da tempo, a margine del nostro principale lavoro in azienda, dei training e c’è una cosa che mi colpisce sempre: la bassissima partecipazione di manager e imprenditori. Osservazione che si riscontra in un commento espresso spesso dai partecipanti: “a questo training dovrebbe proprio partecipare il mio capo!

E questo mi porta a una riflessione: come si formano i numeri Uno?
Ritengo ci siano quattro possibili risposte.
Prima risposta: seguono altri canali, tipo Università, MBA, o corsi specifici di altre aziende.
Seconda risposta: qualcuno (per fortuna) partecipa ai nostri workshop.
Terza risposta: non si formano affatto perché non ne vedono la necessità.
Quarta risposta: non si formano perché sanno tutto.

Seguono altri canali…
Sulla prima risposta non ho molto da dire, spero solo che la scelta sia attenta non solo all’aspetto pubblicitario ma anche ai contenuti e alle modalità.
Proprio recentemente una nota società di consulenza proponeva un “corso per imparare a vendere qualsiasi cosa in venti minuti” (sig!) con un furbo appello al risultato e al poco tempo necessario, elementi che attraggono molti manager e imprenditori.
Su MBA e Business School, diventate oramai macchine per fare soldi, suggerirei di riflettere sui disastri provocati (si pensi alla crisi del 2008) da tanti diplomati e laureati proprio da queste scuole di business.
I più illustri professori di strategia si guadagnano da vivere soprattutto lavorando come consulenti per le aziende di cui celebrano i casi nelle pagine dei loro manuali. Porter ha fondato una società di consulenza che ha guadagnato milioni di dollari grazie ai servizi alle imprese (e anche ad alcuni clienti nel settore non profit). Brandenburger e Nalebuff promuovono il loro libro presentando un elenco di una decina di aziende famose dove hanno lavorato come consulenti. D’altro canto è difficile rimproverare i professori soltanto perché fanno bene il gioco per il quale l’intero sistema delle business school è stato preparato. Le business school, con tutte le loro discipline, non esisterebbero per come le conosciamo oggi se le grandi multinazionali non contribuissero a finanziarne i progetti di ricerca e non ne assorbissero i laureati. Non deve sorprendere, quindi, che quando i professori applicano le loro teorie ai casi reali tendono a scegliere quelli in cui gli “eroi” sono sempre le imprese e i loro manager.
(Matthew Stewart)
Il cimitero delle aziende “ristrutturate”, “delocalizzate”, “fallite”; il penoso teatrino messo in piedi da questa o quella importante azienda per tagliare i costi riducendo il personale; il ricorso da parte di molti manager al solito armamentario di tecniche antiche e sempre uguali per “ottenere risultati”, sono una pietra tombale sulla credenza che esista una cosa come “eccellenza” nella gestione manageriale.

Qualcuno (per fortuna) partecipa ai nostri workshop
E speriamo continuino a farlo!
Sarebbe facile a questo punto aggiungere qualcosa per “promuovere” i nostri workshop, ma voglio limitarmi a ringraziare tutti quelli che hanno partecipato o parteciperanno per la fiducia che ci hanno dato.
A proposito, ricordo il nostro ‘Storie per l’impresaLaboratorio creativo per raccontare l’azienda, i suoi prodotti, il suo brand.’ che terremo a giugno. (vedi il post: C’era una volta…chi sapeva raccontare le imprese. 30 aprile 2018).
Concedetemi un piccolo stacchetto pubblicitario…che si sa è l’anima del commercio!

Non si formano affatto perché non ne vedono la necessità.
Primo tipo di analfabeta del futuro…
In questa categoria rientrano quelli che non vedono nemmeno il problema.
Vivono in una sfera d’acciaio impermeabile a segnali esterni contenti dello status quo, paghi della posizione raggiunta.
Siamo ciechi all’evidenza e siamo anche ciechi alla nostra stessa cecità. (Daniel Kahneman)

Non si formano perché sanno tutto.
Secondo tipo di analfabeta del futuro
 
– Tu mi dai fastidio perché ti credi tanto un Dio!
– Beh, dovrò pur prendere un modello a cui ispirarmi, no?
Woody Allen

Era come un gallo che pensava che il sole sorgesse per ascoltarlo cantare.
George Eliot

A questi che “sanno tutto” un’avvertenza: Dio c’è, ma non sei tu. Rilassati.
Già, rilassatevi, non è possibile sapere tutto, e dobbiamo fare attenzione a quello che non sappiamo di non sapere…
Dal dizionario: Analfabeta, che non sa né leggere né scrivere; per estensione persona ignorante, incolta.
Non sanno leggere nel presente e nel futuro, capendo che la cosa importante non è quello che sappiamo ma, scoprire quello che non sappiamo.
 
Gli analfabeti del futuro non saranno quelli che non sanno leggere o scrivere, ma quelli che non sanno imparare, disimparare, e imparare di nuovo.
(Alvin Toffler)

Cosa fa di un manager un “buon manager”?
Un buon manager è chi ha la capacità di analisi e ancor più di sintesi. E’chi ha un occhio per il particolare ma allo stesso tempo sa distinguere ciò che conta davvero. E’chi sa riflettere sui fatti in modo disinteressato. E’chi è sempre insoddisfatto delle risposte troppo facili e delle convenzioni del buon senso, e dunque trae piacere dalla conoscenza in se. E’chi conosce bene il mondo e sa ancora meglio come lavorano le persone. E’chi sa trattare le persone con rispetto. E’chi possiede l’onestà, l’integrità, la fiducia in sè e tutti gli elementi che costituiscono il carattere. In breve, è chi conosce sè stesso e il mondo circostante abbastanza bene da sapere come migliorarlo. Secondo questa definizione, un buon manager non è altro che una brava persona con una buona istruzione.
(Twilight Manager – Matthew Stewart)

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Massimo

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