Il mestiere di “capo” 2: “facite ammuina”. “All’ordine Facite Ammuina: tutti chilli che stanno a prora vann’ a poppa
e chilli che stann’ a poppa vann’ a prora:
chilli che stann’ a dritta vann’ a sinistra
e chilli che stanno a sinistra vann’ a dritta:
tutti chilli che stanno abbascio vann’ ncoppa
e chilli che stanno ncoppa vann’ bascio
passann’ tutti p’o stesso pertuso:
chi nun tene nient’ a ffà, s’ aremeni a ‘cca e a ‘ll à”.
N.B.: da usare in occasione di visite a bordo delle Alte Autorità del Regno.
Facite Ammuina, in napoletano significa fate confusione è un falso storico, spacciato per un comando contenuto nel Regolamento da impiegare a bordo dei legni e dei bastimenti della Real Marina del Regno delle Due Sicilie del 1841.
Sebbene il facite ammuina non nasca affatto da un regolamento della marina borbonica, in ordine alla sua genesi si danno varie interpretazioni.
Secondo alcuni, esso trae origine da un fatto storico realmente accaduto (anche se dopo la nascita della Regia Marina italiana). Un ufficiale napoletano, Federico Cafiero (1807 – 1888), passato dalla parte dei piemontesi già durante l’invasione del Regno delle Due Sicilie, venne sorpreso a dormire a bordo della sua nave insieme al suo equipaggio e messo agli arresti da un ammiraglio piemontese, in quanto responsabile dell’indisciplina a bordo. Una volta scontata la pena, l’indisciplinato ufficiale venne rimesso al comando della sua nave dove pensò bene di istruire il proprio equipaggio a “fare ammuina” (ovvero il maggior rumore e confusione possibile) nel caso in cui si fosse ripresentato un ufficiale superiore, con lo scopo di essere avvertito e contemporaneamente di dimostrare l’operosità dell’equipaggio.
(Wikipedia)
Essere impegnati non è lo stesso che essere efficaci.
Un’affermazione forte che merita qualche spiegazione.
Molti manager e imprenditori sono sempre molto impegnati.
L’obiettivo è avere la giornata piena o fare le cose che davvero servono?
Alcuni impegni sono “presunti” tali, una razionalizzazione, cioè una spiegazione che sia coerente sul piano logico e accettabile sul piano morale di un sentimento, di un’azione, di una condotta, di un rituale o di un sintomo di cui non si vogliono scorgere le motivazioni profonde. (Umberto Galimberti).
Si sa, il manager efficiente è sempre ben organizzato e pieno di appuntamenti, riunioni, phone call, mail da leggere, report da scrivere, presentazioni da fare; se così non è, non sta lavorando bene.
Come tutte le peggiori bugie – che sono tali perché contengono un fondo di verità – anche quest’affermazione è falsa. Perché?
Provo a indicare alcune possibili cause.
“Riunionite ossessiva compulsiva”: molte aziende ne soffrono e il fenomeno tende a cronicizzarsi; cioè i manager vivono e lavorano in riunione. Tutte le altre attività sono secondarie rispetto alla partecipazione alle varie riunioni e comitati che, purtroppo, alla fine partoriscono il classico topolino. Sono possibili altri modi per comunicare e condurre riunioni davvero efficaci? Certamente sì!
Molte aziende sono autoreferenziali: invece di preoccuparsi del mondo esterno (clienti, concorrenti, innovazione, miglioramento delle competenze e dei processi, ecc.), sono tutte volte all’interno. Molti report sono richiesti da superiori che devono giustificare la loro posizione e far sapere che, tra le pieghe dell’organizzazione, anche loro servono a qualcosa e … contano.
Illusione del controllo: continue richieste di dati, numeri, report, nascondono un problema di ordine logico. Disporre di tanti numeri e report, fa credere di avere la situazione sotto controllo.
Falso.
Se numeri, report e dati non conducono ad azioni (o correttive, o di miglioramento) sono solo un inutile esercizio volto più a salvare la propria posizione che a risolvere davvero i problemi.
Facite ammuina: confusione, agitazione. E’ l’impegno fine a se stesso, finalizzato a dimostrare la propria “saturazione” come manager e l’importanza del proprio lavoro. Il capo come Cafiero, scambia il movimento caotico, per efficacia.
Caos: impegni e sforzi dovuti all’esistenza di una situazione davvero caotica e piena di problemi irrisolti.
Quando, durante i workshop, emerge il problema del tempo (non c’è nè mai abbastanza) e chiedo ai partecipanti cosa fanno durante la loro giornata, mi sento invariabilmente rispondere che, dal 50% al 90% del loro tempo (la percentuale varia a seconda della posizione e dell’azienda), è dedicato a “spegnere incendi” (cioè risolvere problemi).
La domanda successiva che pongo è: qual è la percentuale di problemi davvero nuovi che affrontano? Di solito la risposta non supera mai il 10%.
Quindi, dal 50 al 90% del tempo è speso a risolvere un 90% di problemi che sono sempre gli stessi.
Non potrebbe essere (come ipotesi di lavoro) che il metodo con cui si affrontano i problemi, sia difettoso, poiché la maggior parte dei problemi sono sempre gli stessi che si ripresentano? E che, quindi, in realtà non sono mai stati risolti?
Processi difettosi: ho più volte scritto di come, invece di cambiare processi, procedure e metodi di lavoro non più adeguati, molti preferiscono faticare e ammattire piuttosto che rimettere in discussione il modo di fare le cose.
Competenze: esiste la “curva di apprendimento”.
Il termine “curva di apprendimento” (learning curve) indica il rapporto tra tempo necessario per l’apprendimento e quantità di informazioni correttamente apprese. (Wikipedia)
Va da se, che se non è dato il giusto tempo per l’apprendimento o non sono fornite le giuste informazioni, non c’è apprendimento. E se non c’è apprendimento, con un relativamente basso livello di competenze, il lavoro sarà svolto con molta fatica, creando ansia e stress.
Mancanza di fiducia: molti manager e imprenditori soffrono di una cronica mancanza di fiducia nei propri collaboratori. Di conseguenza non delegano e si trovano super-impegnati perché tutto ricade sulle loro spalle, in un perverso circolo vizioso, del tipo non mi fido di te-faccio da solo-che faccio prima e meglio!
Oppure esercitano un controllo oppressivo sui collaboratori, si chiama micro-management: il capo osserva e controlla da vicino il lavoro dei collaboratori.
Dirigere facendo non vuol più dire dirigere quando il fare supera il dirigere.
La sfida principale per un dirigente che per natura è un uomo d’azione è scoprire il giusto equilibrio tra dirigere e fare: in caso contrario, lo spettro della microgestione può facilmente fare la sua apparizione. (John Maeda)
A queste cause ne possiamo aggiungere due, molto personali.
La prima è la pigrizia.
Pigrizia deriva da pigro: di persona, che per natura, rifugge dalla fatica, dallo sforzo, dall’impegno fisico o intellettuale e dall’azione in genere, o che agisce e opera con lentezza e senza entusiasmo. (Treccani)
Un paradosso: la pigrizia come causa dell’eccessivo impegno.
Ebbene sì, se non si vuole fare lo sforzo di cambiare qualcosa.
Credo che, proprio Freud abbia detto: E’ meglio soffrire che agire.
L’agire implica un cambiamento, nei comportamenti e nel modo di pensare e questo è faticoso e impegnativo. Una situazione disagiata, per quanto negativa, ha il vantaggio del conosciuto.
Così molti capi si stordiscono d’impegni, pur di non pensare o di non dover fare la fatica di cambiare qualcosa.
La seconda è la resistenza al cambiamento.
Molto umana, molto normale e molto devastante.
Più si è in alto (contrariamente a quello che si pensa) e più difficile è cambiare. Quasi che l’altezza nella gerarchia, con la sua distanza dalle realtà delle cose, crei una distorsione percettiva, per cui non si vede la ragione del cambiamento.
Parente della resistenza al cambiamento è l’ego smisurato, per cui il capo si ritiene onnisciente e onnipotente. Una specie di semidio che è stato mandato da Dio tra noi poveri umani e quindi per definizione, infallibile. Se non sbaglia mai (e sono sempre gli altri, a sbagliare) non vi è nessuna ragione di cambiare.
La paura bloccante, impedisce il cambiamento e molti capi ne sono afflitti fino ad arrivare all’incapacità di agire, preferendo, appunto, soffrire o, in alcuni casi, far soffrire.
Tutte le aziende attraversano fasi di cambiamento e trasformazione ed è, quindi, del tutto normale che in certi momenti il capo sia molto impegnato e assorbito da progetti speciali/strategici o da momenti di particolare intensità.
E’ sempre una questione di equilibrio.
Se è sempre così, sarebbe meglio farsi qualche domanda.
Insomma come dice il vecchio detto, l’agenda del capo tradisce le sue vere priorità.
E’ necessario quindi ripensare le priorità e cambiare metodi e processi di lavoro.
Il trade-off quantità/qualità non paga.
Un buon capo dovrebbe avere una parte del tempo disponibile per lavorare su progetti specifici, rivedere i processi, ascoltare e far crescere i propri collaboratori – aiutandoli a superare i propri limiti e migliorando le loro competenze.
Se un capo è sempre molto impegnato, di solito, non è un buon capo.
Se un capo è sempre molto impegnato (sig!) non ha tempo per sviluppare le proprie abilità e competenze. Si autolimita e programma la propria obsolescenza. Nel tempo diventerà sempre meno efficace ed efficiente e, purtroppo, compenserà queste sue incapacità con comportamenti insofferenti, autoritari e distruttivi.
Un buon capo dovrebbe ritagliarsi degli spazi per imparare cose nuove, per apprendere e migliorare, cioè dovrebbe dedicare del tempo al proprio sviluppo come persona e come manager.
Un buon capo dovrebbe prendersi il tempo per pensare e per riflettere. Se all’azione non segue una riflessione, non può esserci apprendimento.
Agire e pensare (riflettere) sono lo yin e lo yang del buon leader.
La regina possedeva uno specchio magico, e quando ci si specchiava per guardarsi gli chiedeva: “Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?” E lo specchio rispondeva: “O mia regina, al mondo non c’è nessuna che sia più bella di te”. La regina era soddisfatta perché sapeva che quello specchio diceva la verità.
Nella nostra vita quotidiana vorremmo avere uno specchio che dica la verità? Una persona quanta verità riesce a sopportare? E quanta se ne può pretendere dagli altri? Infine, da che cosa capisco cosa sia la verità?
(…) Quando un giorno lo specchio rispose: “O mia regina, la più bella sei tu. Ma Biancaneve lo è molto di più!” iniziarono i guai. La regina non era pronta ad accettare la verità, e fu sopraffatta dall’invidia che la spinse a cercare di uccidere Biancaneve.
La sincerità è il fondamento di ogni relazione umana, sia nella vita privata che in quella professionale. Tuttavia utilizziamo molte energie per fingere e ingannare noi stessi o gli altri.
(…) Nella vita quotidiana il nostro specchio sono gli altri: il coniuge, gli amici, i colleghi, i superiori, i dipendenti, ossia il piccolo pubblico costituito dalla famiglia o dai compagni di lavoro, e il grande pubblico costituito dalla società. Accettare la verità che gli altri ci comunicano, è una questione di forza d’animo, perché bisogna essere capaci di sopportarla. Il debole la interpreterà a proprio vantaggio o la negherà, mentre il forte la farà sua e confrontandosi con essa crescerà o fallirà.
Ciò che nella favola è il ruolo dello specchio, nell’ambito della leadership viene svolto da diverse forme di controllo e di feedback. Esercitare una guida senza alcuna forma di controllo non può portare a buoni risultati, poiché il controllo permette di suscitare una reazione – oggi si direbbe un feedback – attraverso una condotta.
(Bernhard Bueb – Le 9 regole della scuola)
Essere impegnati vuol dire “avere tante cose da fare, incombenze e attività da portare avanti” ed è il significato che ho dato alla parola “impegnato” fino a qui.
Essere impegnati ha, anche, un secondo significato, inteso come impiego di tutte le proprie forze nel fare qualcosa con costanza, dedizione, diligenza, passione.
Questo è l’unico impegno che dovrebbe assorbire completamente: essere impegnati a diventare un buon capo.
Essere impegnati a diventare un buon capo vuol dire guardarsi allo specchio e avere il coraggio di cambiare quello che va cambiato.
Federico Cafiero docet!
Buona settimana
Massimo
2 Comments