Da oggi cambio vita …
La mattina la gente si sveglia e dice:
“Da oggi cambio vita”
e invece non lo fai mai.
(dal film The Town)
La mortale seduzione dello “status quo”, l’anestetizzante sicurezza della propria zona di comfort, ovvero perché a volte preferiamo continuare con le solite risposte anziché cercare nuove strade.
Quando paragonavo i ribelli che avevo conosciuto ad altri miei amici, impiegati al National Security Council, ad esempio, o nell’esercito, all’IBM o alla Time Warner, mi rendevo conto che non c’era alcuna possibilità che quei sistemi conservatori potessero mai competere lontanamente. Erano chiusi, da cima a fondo, dal primo all’ultimo e a ogni livello della loro vita burocratica. Nel 2008 (…) un perplesso Alan Greenspan (economista e presidente della Federal Reserve, la banca centrale degli Stati Uniti, dal 1987 al 2006) ammise davanti al Congresso americano, a proposito delle proprie convinzioni:
“Ho trovato una falla. Non so quanto grave o duratura. Ma il solo fatto che esista mi ha sconvolto”.
Il deputato che lo interrogava gli chiese: “In altre parole, lei ha scoperto che la sua visione del mondo, la sua ideologia, non era giusta, che non funzionava?”
Greenspan rispose:
“Precisamente. Proprio così. E’ esattamente questo che mi ha colpito. Perché sono andato avanti per più di quarant’anni nella certezza assoluta che funzionasse benissimo”.
(Joshua Cooper Ramo – 2009)
Alcune organizzazioni e alcuni leader preferiscono la folle frenesia del correre – senza in realtà andare da nessuna parte, l’agitazione “impegnata”, scambiate per efficienza ed efficacia, alla ricerca di una risposta diversa che produca un vero cambiamento.
Perché?
Come nel Il Gattopardo: se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?
Sono le finte decisioni di cambiamento.
Si parte, tutti energizzati dalla voglia di cambiare lo status quo, si fanno proclami, si indicono riunioni, si creano team di lavoro, si cambia tutto, ma in verità tutto rimane com’è (Il Gattopardo docet).
Non appena si cerca di andare oltre la superficie per entrare in parti del lavoro più complesse (procedure, struttura organizzativa, stili di management), si scopre che la prima vera barriera da affrontare è proprio la resistenza dei “piani alti”.
Tutti sono, in linea teorica, d’accordo sull’idea di cambiare, ma in realtà o si vuole un cambiamento di facciata oppure uno che non tocchi le sacre convinzioni, cosa che comporterebbe una modifica nei propri schemi mentali, nei comportamenti e nelle credenze che così gelosamente custodite e costruite nel tempo.
Molti responsabili temono la perdita dei propri punti di riferimento e hanno paura di lasciare la propria zona di comfort.
Nel timore di esporsi in prima persona, vogliono evitare la paura che deriva dalla perdita di controllo (situazioni nuove, incertezza) e volendo evitare di acquisire nuovi comportamenti, amano la tranquillità dello status quo.
La zona di comfort è uno stato psicologico in cui le cose sono sentite come familiari, ci si sente a proprio agio, nel controllo del proprio ambiente, sperimentando bassi livelli di ansia e stress. In questa zona è possibile ottenere un livello di prestazioni costante.(Wikipedia)
La resistenza al cambiamento è direttamente proporzionale alla posizione nella struttura: più in alto si è, più è difficile cambiare, cioè l’esatto contrario di quello che normalmente si potrebbe pensare.
In altri casi, l’assenza di particolari problemi di business, un flusso di profitti costante e di buon livello, vendite che continuano a crescere, creano situazioni di agio e di compiacimento per i risultati ottenuti, eliminando ogni necessità di evoluzione.
Molte aziende, colpite duramente dalla crisi del 2008, venivano da un passato di successo e di risultati, che avevano anestetizzato il sistema.
Il risveglio dal torpore è stato, per molte di esse, molto duro e difficile.
Le persone si ritrovano prigioniere di un atteggiamento mentale. I loro obiettivi sono precostituiti. Scambiano schemi di pensiero e orientamenti per la realtà, smettono di guardare oltre i confini dei modelli e non li mettono in dubbio. E’ come se le loro modalità di pensiero si congelassero e rimanessero irrigidite.
(M. Alvesson, A. Spicer – Il paradosso della stupidità)
Come ha detto Alan Greenspan, molte organizzazioni vanno avanti così per anni nella certezza assoluta che funzioni benissimo.
Funzionare, cioè adempiere la propria funzione.
Il problema si sposta alla definizione di cosa debbano fare un’organizzazione, la sua struttura e i suoi leader, per mantenere un’azienda in buona salute.
Come si può decidere se questi elementi “funzionano bene”?
I risultati, potrebbe rispondere qualcuno, sono un criterio oggettivo di valutazione.
Lehman Brothers, società attiva nei servizi finanziari, fece un profitto record di 4,2 miliardi di dollari nel 2007, l’anno dopo, nel 2008, dichiarava bancarotta.
General Motors che partiva da una quota di mercato del 51% nel 1962, iniziò una lunga scivolata fino a toccare il 22% nel 2008. Nel 2009, prosciugate le linee di credito, con clienti che non compravano più le sue auto, presentò istanza di fallimento.
Si potrebbero fare altri esempi, tuttavia credo che il concetto sia chiaro: un buon risultato oggi non è indicativo di un successo futuro.
Il sistema a un certo punto s’inceppa e smette di “funzionare bene”.
E’ proprio nel momento migliore, quando i risultati sono buoni, le vendite alte, che si dovrebbero portare avanti programmi di cambiamento con l’obiettivo di creare le premesse per un futuro solido e di sviluppo.
Molte, troppe volte, accade il contrario.
Si interviene quando oramai è troppo tardi.
Altre organizzazioni, altri leader, con una visione di prospettiva e non sul breve termine, cominciano per tempo i necessari passi per portare l’azienda al livello successivo, con la consapevolezza che le aziende, come creature viventi, per vivere devono muoversi ed evolvere.
A parte considerazioni sulla strategia d’impresa, sullo sviluppo dei prodotti, sul mercato e sui clienti, è sempre la presenza di un management attento, dotato di visione, creatività e capacità di diagnosi, a consentire la costruzione di un percorso di successo in tempi perturbati come gli attuali.
E spostando il focus da temi più generali (strategia, mercati, modello di business), a quelli più personali e operativi, la domanda diventa: cosa cambiare domani?
Lottare per difendere lo status quo o cercare di muoversi in nuove direzioni?
Citando Snoopy, se non ci piace dove stiamo possiamo spostarci, non siamo alberi.
Il primo passo è di non cedere alle lusinghe e alle tentazioni dello status quo.
Fermarsi e riflettere.
Valutare punti di forza e debolezza.
Costruire un’immagine di un futuro possibile.
Definire tempi, risorse e competenze.
Costruire le competenze necessarie.
Sviluppare una bozza di piano d’azione.
Agire.
Imparare.
Aggiustare il tiro (cambiare, migliorare).
Ripetere.
Molte cosiddette “strategie” soffrono di alcuni difetti congeniti:
sono aria fritta;
non affrontano le vere sfide;
scambiano gli obiettivi per strategie;
identificano priorità errate.
A difetti nell’analisi si aggiungono incapacità e mancanza di coraggio nel fare il necessario. E i problemi non si risolvono o le sfide non vengono né definite né affrontate.
Su risorse e competenze potrei scrivere a lungo.
Nell’era di Industry 4.0, sembra che l’automazione e i software siano gli strumenti più gettonati, con una certa ignoranza (nel senso di non conoscenza) delle lezioni del passato e inconsapevoli del fatto che la tecnologia è solo un acceleratore e non può sostituire la mancanza di idee.
Sulle competenze vi è un serio problema derivante dalla colpevole cecità con cui molte organizzazioni trascurano questo aspetto strategico dello sviluppo delle proprie persone. Alcune aziende si dotano così di strumenti ipertecnologici (ammesso che servano davvero) non avendo creato le condizioni per poterli utilizzare nel modo corretto.
Fortunatamente alcuni nostri clienti hanno compreso il legame stretto tra processi/persone/risultati/competenze e dimostrano nei fatti come scelte ragionate e coraggiose possono davvero tradursi in vantaggi sostenibili sul mercato.
Infine, la dimensione personale.
“Da oggi cambio vita” significa un diverso approccio ai problemi, alla crescita e allo sviluppo delle competenze personali e delle capacità di leadership.
Come ha detto qualcuno, il più grande investimento che possiamo fare è su noi stessi, sul miglioramento delle nostre competenze e abilità in un mondo che accelera sempre di più e a volte, purtroppo, nel totale disinteresse dell’organizzazione alla quale dedichiamo gran parte della nostra vita attiva, più preoccupata a fare investimenti in tecnologie che preoccupata di far crescere e preservare le proprie persone.
Investendo su noi stessi ci assicuriamo un aumento delle competenze, un miglioramento della nostra efficacia/efficienza come leader, miglioriamo la nostra motivazione, rendiamo più produttivo l’impegno e stipuliamo un’assicurazione sul nostro futuro.
Il nostro potenziale è un contenitore espandibile e dovremmo assumerne il controllo. E’ un patrimonio troppo importante per lasciarlo gestire ad altri.
“Da oggi cambio vita” implica la consapevolezza dei rischi dello status quo e del fatto che il successo sta al di fuori della nostra zona di comfort.
Non siamo alberi per cui possiamo sempre decidere di spostarci.
E’ sempre e solo una questione di scelte…
Design a better world …
Buona settimana
Massimo
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