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Il mestiere di capo 4. Mercenari e “Missionari”.

By 29 Maggio 2016 Marzo 29th, 2018 No Comments

Il mestiere di capo 4. Mercenari e “Missionari”.57242490_mlOgni tanto – spesso, in verità – mi capita di avere qualche felice intuizione e di identificare qualche idea o tendenza in anticipo sui tempi. E la dimostrazione che è valida, è che ci copiano, ma questa è un’altra storia.

Un interessante articolo pubblicato su Wired-UK Edition di giugno e scritto da Julie Hanna, dal titolo “DO GOOD. MAKE MONEY. Why purpose is the new profit centre.” spiega qualcosa che, avevo già identificato qualche tempo fa.
 
(…) Ho fatto da mentore a decine di stelle nascenti nella Silicon Valley che hanno rifiutato o hanno lasciato impieghi ben retribuiti per posizioni che pagano di meno ed erano molto più incerte. Hanno fatto il salto perché volevano cambiare il mondo e un lavoro che valesse i loro sforzi.
(…) Sebbene attraente nella sua semplicità, la massimizzazione del profitto a breve termine è stata erroneamente identificata con la creazione di valore per gli azionisti e viene spesso a scapito della creazione di valore sostenibile in egual misura per gli azionisti e le parti interessate.
(…) La crisi economica globale del 2008, e da allora una ripresa lenta, l’inquinamento, una crisi climatica in aumento e la crescente disparità di reddito, sono la prove onnipresenti e innegabili che il perseguimento della massimizzazione del profitto ad ogni costo avviene a caro prezzo per il pianeta e per la nostra umanità.
(…) I “Millenials” (chiamata anche la “generazione Y”, cioè i nati tra il 1982 e il 2001) stanno rendendo esplicita la nostra brama universale e l’innato desiderio di contribuire a qualcosa di più grande di noi stessi. La generazione più socialmente ed ecologicamente consapevole che mai, è diventata coscienza e meccanismo di auto-correzione dell’umanità. Essi insistono su una connessione intenzionale con le società da cui acquistano, per cui lavorano e investono. Vogliono conoscere perchè esiste un business, quello che fa, come tratta le persone e il pianeta. Nove su dieci credono che il successo dovrebbe essere misurato da qualcosa di più di una performance finanziaria. Per loro, l’idea di andare a lavorare con l’unico obiettivo di massimizzare i profitti e valore per gli azionisti è senza senso e disgustosa.
(…) Secondo un sondaggio del 2016 della Deloitte, più della metà (dei Millenials) hanno “scelto di non svolgere un attività al lavoro perché andava contro i loro valori personali o etici”.

Molte aziende ancora prigioniere della vecchia mentalità del bastone e della carota, non hanno ben compreso queste ragioni e quindi non riescono a creare ambienti motivanti.
Non riescono a produrre significato e non hanno valori interessanti che attraggano.
Non forniscono una valida ragione che susciti l’impegno delle loro persone. Aggiungiamo poi, che non si preoccupano della loro crescita e sviluppo, facendole invecchiare (intellettualmente e professionalmente) molto velocemente.

L’autrice cita poi le “mercenary-driven companies” guidate solo dalla ricerca del profitto sul breve termine, da quelle “mission-driven” che cercano di realizzare obiettivi superiori al raggiungimento del puro e semplice profitto.
Sappiamo che esistono “mercenari” (mercenary-driven) che “per un pugno di dollari” passano facilmente sopra tutto e sopra tutti, agendo anche comportamenti che non possiamo dire certamente rispettosi né delle persone, né della società più in generale.

Lo scopo è l’obiettivo. Il profitto è il risultato. E’ l’ordine naturale delle cose. Una creazione di valore più grande genera più profitto che provare a massimizzare il profitto solo come gioco fine a se stesso.”
Profitto e scopi sono moltiplicatori di forza che si rinforzano l’uno con l’altro.
(…) Le grandi aziende non sono grandi solo perché fanno un mucchio di soldi. Fanno un mucchio di soldi proprio perché sono grandi.

Tutto questo ragionamento cosa ha a che fare con il “mestiere di capo”?
Molto.
Un’azienda produce valore in senso economico (prodotti e servizi) esterno – i clienti e la società – ma, produce anche valore interno, cioè identifica scopi e valori nei quali i dipendenti dovrebbero riconoscersi.
E il capo dovrebbe costruire significati e avere uno scopo che possa allineare tutte le sue persone (vedi i post del: 24/1/16 – Il significato della Leadership e la leadership del significato; 21/2/16 – I diversamente motivati), cioè deve comunicare un’idea o meglio, una visione di un futuro possibile.

La visione però non è sufficiente è necessaria un’altra qualità: l’integrità.
Il capo, cioè, fa quello che dice.
In molte aziende a discorsi impegnati, a poster che recitano di valori e visioni, purtroppo non seguono poi comportamenti coerenti con quanto scritto o raccontato. Quelle parole non sono credibili, suonano false. Le persone non credono alle parole, ma guardano a quello che i loro capi fanno. E quello che i capi fanno è più importante di quello che dicono.

La credibilità scaturisce dall’integrità. Gli individui capaci di prestazioni eccellenti sanno che sul lavoro la fidatezza si traduce nel fare in modo che le persone conoscano i loro valori, principi, intenzioni e sentimenti, e nell’agire in modo costantemente coerente con essi. Queste persone sono sincere sui proprio errori e sanno affrontare quelli degli altri.
Le persone che spiccano per integrità sono sincere, anche attraverso il riconoscimento dei propri sentimenti.
(…) Invece, coloro che non ammettono mai un errore o un’imperfezione o che “gonfiano se stessi, la loro azienda o un prodotto”, minano la propria credibilità.
L’integrità – ossia l’agire in modo aperto, onesto e coerente – distingue le persone capaci di prestazioni eccellenti in ogni tipo di lavoro.
(Daniel Goleman – Lavorare con l’intelligenza emotiva)

In fin dei conti dire belle parole non costa poi molto. E’ mettere in pratica, ogni giorno, le parole e i valori e i significati che conta davvero.
E’ la capacità di mantenere le promesse, di agire coerentemente con quanto si dice, che rende il capo credibile e degno di fiducia.
La mia vita è il mio messaggio, diceva Gandhi.

Tutto ciò che facciamo con l’intenzione di ottenere un effetto su qualcun altro ha successo solo nella misura in cui quest’ultimo ci crede.
Se non siamo credibili, ciò che cerchiamo di fare viene recepito e decodificato dai nostri destinatari all’interno di un ampio spettro di sfumature, che vanno dal divertimento sfrenato al disprezzo più assoluto.
In pratica tutti gli oggetti o utensili che compriamo ufficialmente, ossia pagando l’IVA corrispondente, sono garantiti per legge: in cambio del nostro denaro, devono funzionare almeno per il periodo di tempo prefissato. La garanzia esiste solo per incrementare la fiducia del consumatore.
E rispetto a noi stessi, a tutto ciò che facciamo, diciamo e progettiamo? Oppure, e in alternativa … rispetto alla nostra impresa e a tutto ciò che offre e progetta? Sappiamo se veniamo creduti, oppure semplicemente sentiti?
La credibilità è fondamentale perché significa che ciò che emaniamo all’esterno giunge ai nostri destinatari coperto di garanzia. La credibilità è la nostra garanzia di accettazione. E proprio come accade con i brand, non è una garanzia eterna: ha sempre una data di scadenza.
(…) Avere un’idea chiara del livello di credibilità di cui godiamo – come persona, impresa o istituzione – è determinante in vista della solidità e della continuità del nostro cammino.
A livello personale, la solidità si misura in base alla quantità e alla qualità degli accordi e dei fiaschi che ci accompagnano nel nostro costante deambulare biologico.
A livello aziendale si verifica esattamente la stessa cosa, benchè curiosamente, per gli enti di ricerca che si dedicano a esaminare nel minimo dettaglio le imprese per cui lavorano, la misurazione del livello di credibilità attribuito dal mercato è una questione irrisolta. Non sarà perché, se potessero misurarlo chiaramente, in alcuni casi dovrebbero spiegare che il principale motivo della scarsa credibilità di cui godono è l’immagine proiettata dagli stessi dirigenti?
(Joaquin Lorente – Pensa è gratis)

La continua ricerca del compromesso, del fare i numeri del mese e del trimestre, logiche di carriera e di politica interna aziendale, la creazione di un ambiente che tollera solo gli “yes-man”, sistemi autoreferenziali che perpetuano le gerarchie oramai impermeabili al mondo esterno, ma solo rivolte ai vari giochi interni, l’incapacità di mantenere quanto promesso, in sintesi, una cronica mancanza di integrità, può nel tempo portare a situazioni di grave crisi.
In alcune aziende, i segnali deboli, spesso trascurati, sono rappresentati da un malessere diffuso e da un impennarsi dell’assenteismo e del turn-over del personale, il tutto nell’indifferenza del management chiuso nei suoi rituali, che poi magari pubblica sui “social”, conturbanti frasi motivazionali (esempio di disallineamento tra il dire – scrivere in questo caso – e il fare) o partecipa a meeting o incontri sul coinvolgimento e sul valore delle persone.
Sono i manager da “un pugno di dollari”, i mercenari pronti a tutto, per carriera, o bonus, o status.

Dall’altra ci sono i manager dello “scopo”, dell’impegno e che cercano di difendere e sostenere le proprie idee e valori e che credono in quello che fanno:
La cosa più difficile da fare, e la cosa giusta da fare, di solito sono la stessa cosa.
(dal film “The Weather Man”)

Alcuni leader che la storia ha portato alla ribalta erano certamente integri: Stalin e Hitler facevano quello che dicevano, ma non per questo erano leader che avremmo voluto seguire, non esprimevano valori e ideali che si potrebbero giudicare meritevoli del nostro sforzo e impegno.
Insomma gli obiettivi e i valori che un leader rappresenta possono essere giusti o sbagliati, degni di essere perseguiti, oppure come nel caso sopracitato qualcosa da contrastare o dal quale tenersi alla larga.
Integrità, obiettivi e valori diventano così meritevoli di una riflessione prima personale e poi aziendale.
Molte persone lasciano l’azienda, anche in tempi di incertezza come gli attuali, perché vivono un dilemma: i valori della persona e i valori dell’azienda sono disallineati.
Alcune aziende e alcuni manager incapaci di creare significati trattengono e attraggono le persone con l’unico modo che conoscono, il denaro o la prospettiva di carriera, alimentando così nuovi mercenari. Questo naturalmente non vuol dire che l’aspetto economico o professionale non siano importanti, ma solo che così facendo si crea una prospettiva a una dimensione che fallisce nel creare quell’impegno appassionato così indispensabile oggi. Assistiamo così, da un lato, a persone che, come gli uccelli migrano di stagione in stagione, essi si spostano da un’azienda all’altra per ottenere stipendi e posizioni più alte giocando sul cambio di organizzazione. Persone orgogliose di aver cambiato azienda ogni due o tre anni.
Dall’altro, in quelli che, magari anche per ragioni anagrafiche o professionali, non sono riusciti a cambiare, riscontriamo un cinismo e un disimpegno diffusi, risultato di politiche aziendali prive di sostanza e direzione.

Meno retorica sul talento, meno enfasi sul profitto (che è sempre un risultato), più attenzione ai valori e alla creazione di significato e soprattutto che il capo faccia quello che dice, mantenga le promesse e sia esempio dei valori dell’azienda.
 
Nel buddismo consideriamo estremamente importante che chi insegna i principi li applichi alla propria condotta.
In India, ai tempi del Buddha, maestri e filosofi venivano presi sul serio soltanto se vivevano in sintonia con quanto predicavano.
(…) Un leader sarà rispettato soltanto se agisce in conformità ai principi nei quali dice di credere. Per dirla in altri termini, sono molti coloro che imitano il comportamento dei loro leader. Se tale comportamento non è conforme ai principi enunciati, le persone seguiranno il comportamento e non i principi.
(Dalai Lama – La via del comando)

L’abbiamo visto accadere tante volte.
Abbiamo bisogno di leader che, prima di tutto, siano credibili.

Buona settimana
Massimo

 

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