I love my job. Ecco quattro parole che non senti spesso: “Amo il mio lavoro”.
“100 Best Companies to Work For.”
(…) Così, tutte le persone che lavorano in queste aziende ritornano abitualmente ai loro coniugi e amici e gridano “Amo il mio lavoro?”
Solo nei tuoi sogni. (E solo se si ha una vita da sogno piuttosto noiosa).
(Robin Hardman – What Makes a Company a Great Place to Work? Huffingtonpost)
Già… quanto spesso sentiamo dire “amo il mio lavoro”?
Secondo la scrittrice del post, Robin Hardman, le aziende migliori per cui lavorare hanno alcune caratteristiche comuni.
Primo: trattano i dipendenti come persone adulte.
Condividono le informazioni con i dipendenti, ascoltano le loro idee (o meglio ancora, cercano attivamente e agiscono in base alle loro idee) e assumono che siano abbastanza responsabili da gestire il proprio tempo.
Secondo: trattano le persone in modo equo.
Terzo: aiutano i dipendenti con le loro carriere e capiscono che non tutte le carriere sono uguali. Hanno intensi programmi di formazione.
Quarto: capiscono che le persone hanno una vita al di fuori del lavoro e che questa vita (con i suoi impegni) potrebbe talvolta avere un impatto sul loro tempo e attenzione. Si rendono conto che concedere spazi per gli impegni personali (le necessità della vita) non solo non sprecherà tempo e denaro in un inutile turn-over, ma costruirà lealtà e impegno. Sanno che per avere bisogna concedere.
Quinto: vedono il divertimento, l’umorismo e il relax, non come nemici del lavoro serio, ma come suoi alleati.
Sesto: hanno uno scopo – una missione – che tutti capiscono. Ancora meglio, ogni dipendente può dirvi il ruolo che gioca per realizzare questo scopo.
Settimo: sono buoni cittadini delle loro comunità e del mondo.
Chi lavora per un’azienda che soddisfa i punti sopra riportati, potrebbe affermare di amare il proprio lavoro. Non tutti i dipendenti di quell’azienda naturalmente potranno dirlo, ma una buona percentuale probabilmente sì.
Potrebbero essere elementi per una valutazione della “bontà” di un’azienda e cioè fare una riflessione su cosa renda un’organizzazione, una “grande” o una “buona” azienda, per la quale lavorare.
Nelle tante chiacchiere sul “cliente al primo posto” ci si dimentica spesso che se questo è vero i dipendenti sono al “primissimo”. In questi tempi di tagli, di lavori temporanei, di outsourcing, la dimensione del BEN-ESSERE (nel senso di stare bene), come direbbe il mio caro amico Roberto Grandis, è dimenticata o non più considerata come obiettivo da perseguire.
Fin da uffici piuttosto tristi con pareti di colore deprimenti, con le scrivanie disposte di fronte al capo (che già trasmettono l’idea di quanto la fiducia sia una cosa di un altro pianeta) ad aree mensa o spogliatoi da fine ottocento, l’interesse per le proprie persone appare lontano anni luce da essere una preoccupazione per molte aziende.
Non migliore considerazione esprime il disinteresse per la crescita e lo sviluppo delle competenze dei propri dipendenti. La formazione, quella seria, è vista come una perdita di tempo e deve costare poco.
Antichi programmi di lingua inglese oppure lezioni sull’uso degli strumenti di Office, fanno ancora capolino tra gli “sforzi” che l’azienda profonde in formazione. Così essendosi lavata la coscienza, vari responsabili della formazione possono dormire il sonno del giusto, di chi sa di aver fatto tutto il possibile per costruire le competenze del domani.
Budget anoressici sulla formazione, inferiori ai costi che l’azienda sostiene per il parco-auto aziendale, falliscono nell’obiettivo (se mai è stato preso in considerazione) di far crescere dall’interno know-how, motivazione, capacità e skill.
Non si comprende che le competenze e le abilità vanno continuamente stimolate e aggiornate, aumentando così il senso di auto-efficacia delle persone che ne traggono fonte di motivazione, oltre che un miglioramento sostanziale nella qualità del lavoro e di incisività nell’agire.
E l’abbassamento dei livelli professionali continua inarrestabile.
In altri casi la continua paranoica ricerca, per usare due termini terrificanti, di “razionalizzazioni” e “ottimizzazioni” e cioè la focalizzazione sul taglio dei costi fissi e quindi il personale, ha incrementato l’intensità e la quantità di lavoro sulle spalle di quelli che sono rimasti. Tagli indiscriminati di teste, una cronica criticità di alcuni processi aziendali mai migliorati e/o modificati, l’aumentare delle richieste del business, la contrazione dei tempi causata da una sempre maggiore richiesta nella velocità delle risposte, creano condizioni di pressione continua, stress e frustrazione.
Infine, capi incapaci, demotivanti completano l’opera …
Con buona pace del BEN-ESSERE.
Per alcuni recarsi al lavoro è come entrare in trincea: elmetto, bombe a mano pronte e baionetta innestata …
Quanti si trovano in organizzazioni che hanno le caratteristiche sopra descritte? E quanto di essi potrebbero allora dire di “amare il lavoro” o di essere in una grande azienda?
Per fortuna a risolvere il tutto ci sono le indagini di clima aziendale, le “survey” e i colloqui di valutazione che producono aberranti programmi motivazionali con linee guida sui comportamenti corretti da tenere: regole, procedure, indicazioni e consigli.
Programmi che hanno alcune caratteristiche comuni: sono pieni di ovvietà, propongono ricette vecchie e non funzionano.
Hanno una sola cosa apparentemente positiva: lavano le coscienze (ah Ponzio Pilato docet!).
Che cosa rende, allora, un’organizzazione – una grande azienda? Una buona azienda per la quale lavorare?
Non sarebbe bello essere orgogliosi di lavorare per la propria azienda?
Perché invece di amore a volte proviamo quasi odio per il lavoro?
E perché quella persona apparentemente demotivata, considerata incapace, dopo l’orario di lavoro risorge? Diventa allenatore, partecipa ad attività di volontariato, impara a suonare uno strumento, frequenta corsi. E’ come se nella persona, all’entrata in azienda, qualcosa si spenga e sia travolta dal “caos razionalizzato” …
Stiamo forse sbagliando qualcosa?
Una prima risposta è nelle condizioni indicate da Robin Hardman, in quei sette punti che possono creare un percorso possibile.
Inoltre dovremmo rivedere alcuni presupposti per realizzare i quali abbiamo sacrificato le persone e alcuni obiettivi andrebbero ripensati profondamente.
Dovremmo ripensare al perché un’azienda esista, di quale sia il significato del lavoro fatto, di quale sia la missione di un’azienda che non può essere solo il profitto, essendo quest’ultimo solo il riconoscimento del mercato per un lavoro (prodotti e servizi) svolto in modo eccellente.
E dovremmo rimettere in discussione alcune assunzioni sulle persone, sulle loro motivazioni e sul ruolo del management.
Perché dovremmo farlo? Perché viviamo in tempi esponenziali.
Questi sono tempi esponenziali. E hanno creato tre condizioni che definiscono la nostra era.
Asimmetria.
Nell’era analogica una sorta di fiducia newtoniana approssimativa predominò nell’ambito dell’attività umana. Le grandi forze storiche potevano essere controbilanciate solo da una forza di pari dimensioni e intensità. Il capitale era tenuto sotto controllo dalla manodopera ed entrambi erano limitati (seppure in modo imperfetto) dal potere politico. Gli eserciti grandi battevano quelli piccoli. Coca-Cola si preoccupava di Pepsi e di poco altro. Malgrado esistessero alcuni attriti, spesso sanguinari e catastrofici, nei punti in cui tali forze enormi entravano in contatto, gli esiti si conformavano a una sorta di ordine chiaro a tutti.
Poi nel giro di poco più di vent’anni, tutto questo è cambiato.
(…) Il punto è che non si può più presupporre che i costi e i benefici saranno proporzionali alle dimensioni. Semmai, è probabilmente vero l’opposto: le più grandi minacce allo status quo provengono oggi dai posti più piccoli, dalle startup e dai malviventi, i dissidenti e i laboratori indipendenti. E come se tale dato di fatto non fosse sufficientemente sconfortante, ci troviamo di fronte a una valanga di nuovi concorrenti mentre i problemi con cui siamo alle prese sono più complessi che mai.
Complessità
L’economia ha tutte le caratteristiche della complessità.
Molti sistemi complessi sono anche adattivi; i mercati per esempio cambiano costantemente in risposta alle nuove informazioni che emergono, esattamente come le colonie di formiche rispondono immediatamente in massa alle nuove minacce o opportunità.
Incertezza
Che cosa ci riserva il futuro?
(…) Negli ultimi secoli gli esseri umani hanno inanellato una serie deplorevole di fallimenti sul fronte della previsione del futuro. Di fatto gli esperti e i futurologi sono tra coloro che hanno fallito di più, ottenendo una performance inferiore alla mera selezione casuale.
Di fatto siamo entrati in un’era in cui chi ammette la propria ignoranza gode di alcuni vantaggi strategici rispetto a chi investe risorse – sottocommissioni, think tank, forecast di vendita – per inseguire lo scopo comune sempre più futile di prevedere eventi futuri.
(Joy Ito, Director MIT Media Lab – Jeff Howe, Al passo col futuro)
In un mondo caratterizzato da asimmetria, complessità e incertezza, è indispensabile ripensare completamente il modo in cui le aziende dovranno funzionare e soprattutto come saranno gestite.
Secondo una definizione proposta da Birkinshaw il management è l’atto di radunare persone per realizzare finalità e obiettivi desiderati, ne segue che l’elemento “persona” è al centro dell’attività di guida di un’azienda.
Le aziende sono composte di persone e le persone giocheranno un ruolo sempre più importante. Se l’ambiente competitivo è sempre più complesso, avremo bisogno di iniziativa e progettualità che non potranno, come in passato, provenire solo dall’unico che pensa e decide (forse!) o da gruppi ristretti di eletti.
Amo il mio lavoro?
Molto del nostro tempo è passato proprio al lavoro ed è difficilissimo lavorare con passione se si passa tanto tempo a fare qualcosa che non si ama.
La risposta a questa domanda non è solo filosofica ma sostanziale.
Sono convinto che in molte delle aziende più grandi (non nel senso economico ma secondo la dimensione del BEN-ESSERE) molti amano il lavoro che fanno.
Questo significa che è possibile costruire una “buona” azienda.
Le persone che ci lavorano, dovranno trovare significato, senso e motivazione in quello che fanno e metterci intelligenza, impegno, responsabilità, iniziativa.
L’azienda dovrà rispondere con uguale interesse, cura e attenzione, creando le condizioni perché le persone possano dire di “amare il proprio lavoro” (non scriverlo nelle indagini di people satisfaction, ma agirlo!).
Alla dignità del lavoro, sulla quale recentemente ho scritto, affianchiamo un’altra dimensione, quella emozionale (amore), quella del lavoro come espressione nel “fare” delle migliori qualità dell’uomo, della sua intelligenza, della sua creatività.
Forse un giorno assisteremo alla fine del lavoro, inventeremo un diverso sistema economico che consentirà alle persone di dedicarsi alle arti, allo studio, al gioco, allo sport, ma non succederà molto presto.
Per ancora molti anni a venire dovremo, ogni giorno, recarci al lavoro e spero, trovare un ambiente amico e non un campo di battaglia dove l’unica emozione è la sofferenza, ma al contrario dove andremo volentieri per dare il nostro contributo per costruire qualcosa di importante, dove ci saranno occasioni di crescita, di sviluppo, delle persone, dell’azienda e della società.
Allora … sarà possibile amare il lavoro… ed esprimere al meglio le proprie potenzialità.
Non c’è passione nel vivere in piccolo, nel progettare una vita che è inferiore alla vita che potresti vivere. (Nelson Mandela)
Design a better world …
Buona settimana
Massimo