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Tra l’incudine e il martello.

By 25 Marzo 2018 Maggio 2nd, 2018 No Comments

Tra l’incudine e il martello.29256584_xl

Il lavoro, ridotto a un settimo della vita adulta, perde centralità; la forza lavoro si femminilizza; l’organizzazione del lavoro richiede più motivazione che controllo, più creatività che burocrazia, più etica che astuzia, più estetica che pratica, più equilibrio vitale che overtime, multitasking e reperibilità.
(Domenico De Masi – dal sito domenicodemasi.it)
 
 
Primo scenario
Full Metal Jacket di Stanley Kubrick.
1967. Nel campo di addestramento dei Marines, di Parris Island, nella Carolina del Sud, diciassette giovani coscritti per la guerra del Vietnam subiscono un duro addestramento. Il severissimo sergente istruttore Hartman tratta le reclute come animali allo scopo di trasformarli in perfetti strumenti di morte, obbligandoli ad amare visceralmente il proprio fucile, secondo i dettami del credo del fuciliere e rivolgendosi a loro con insulti mortificanti e soprannomi ignobili.
(Wikipedia)

Sergente istruttore Hartman: “i tuoi genitori hanno anche figli normali?”
Soldato Pyle (Palla di Lardo): “ Signorsì signore!”
Serg.istr.Hartman: “Si saranno pentiti di averti fatto: tu sei talmente brutto che sembri un capolavoro d’arte moderna. Come ti chiami sacco di lardo?”

Sergente istruttore Hartman:
“Come diceva John Wayne: Un giorno senza sangue è come un giorno senza sole”.

Secondo scenario
Don Abbondio non era nato con un cuor di leone. Ma, fin da’ primi suoi anni aveva dovuto comprendere che la peggior condizione, a que’ tempi era quella di un animale senza artigli e senza zanne, e che pure non si sentisse inclinazione d’esser divorato. La forza legale non proteggeva in alcun conto l’uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far paura altrui.
(…) Il nostro Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s’era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d’essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta. Ma una classe qualunque non protegge un individuo, non lo assicura, che fino a un certo segno: nessuna lo dispensa dal farsi un suo sistema particolare. Don Abbondio, assorbito continuamente ne’ pensieri della propria quiete, non si curava di que’ vantaggi, per ottenere i quali facesse bisogno d’adoperarsi molto, o d’arrischiarsi un poco. Il suo sistema consisteva principalmente nello scansar tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non poteva scansare. Neutralità disarmata in tutte le guerre che scoppiavano intorno a lui..
(Alessandro Manzoni – I promessi sposi)

Terzo scenario
“Qualche momento fa, mi hai chiamato ‘maestro’. Ma cos’è un maestro? La mia risposta è questa: non è chi insegna qualcosa, ma colui che sprona l’allievo a dare il meglio di sé, per rivelare una conoscenza già insita nel suo animo.”
E mentre scendevano dalla montagna, Tetsuya spiegò al ragazzo il cammino dell’arco.
(Paulo Coelho – Il cammino dell’arco)

Tre scenari, tre istantanee per fotografare stili diversi di essere “capo”.
Il sergente istruttore Hartman, Don Abbondio e l’arciere Tetsuya, tre figure iconiche per rappresentare il middle management.

Il sociologo Domenico De Masi nell’introduzione al libro di Matthew Stewart, “Twilight manager” scrive in modo tagliente ma incisivo:

Con il middle management ecco rinascere, in versione intellettuale, l’”uomo bue” in cui Taylor identificava l’operaio analfabeta, deprivato di conoscenza, dignità e potere: quell’”uomo bue” che isolatamente è inerme, ma unito ad altri “uomini bue” forma una classe minacciosa, capace di mettere in ginocchio i datori di lavoro, di rovesciare esecutivi inetti e governare interi continenti.
 
Questo nuovo proletariato intellettuale non ha coscienza di classe perché non è ancora una classe. Dunque, per ora, è innocuo. Ognuno dei nuovi proletari non sa chi sono i suoi amici e i suoi nemici, qual è la posta in gioco e quali le possibilità di vincere lottando in modo collettivo e organizzato. Perciò gioca da solo e naviga a vista, secondo tattiche basate sulla fedeltà ai superiori piuttosto che sulla diffidenza nei loro confronti, sulla richiesta autonoma piuttosto che sulla rivendicazione sindacale di contratti più favorevoli, sulla competitività contro i colleghi piuttosto che sulla solidarietà reciproca e sull’unione contro il vero nemico: quel top management che si è via via accaparrato tutto il potere, esercitandolo con cinismo e sottraendolo sia agli azionisti che ai collaboratori.

Posizione scomoda quella del middle manager tra un “sopra” che spinge per i risultati e un “sotto” fatto, molte volte, di ex-colleghi, spesso rassegnati, a volte refrattari e resistenti agli ordini del capo. Come il proverbiale pezzo di ferro tra l’incudine e il martello, così il capo intermedio è schiacciato da tutte le parti.

Il meccanismo di selezione dei capi intermedi è immutato da decenni: si sceglie la persona tecnicamente più preparata, affidabile e leale – scelta che spesso prende la disponibilità personale e il tempo passato in azienda come criteri di decisione – e la si promuove.
Molto spesso si perde un ottimo tecnico e si acquisisce un pessimo capo.
Per essere un buon leader servono anche altre competenze sulle quali le aziende non hanno mai investito, relegando così il processo di formazione dei manager di livello intermedio al caso e alle capacità individuali.

Il risultato sono le tre figure rappresentate dagli scenari di cui più sopra.
Il sergente istruttore Hartman, inflessibile, incapace di mostrare empatia e ascolto, che dà ordini e interviene con durezza qualora i compiti assegnati non siano svolti secondo le sue richieste.
Don Abbondio, il cui sistema consiste principalmente nello scansar tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non poteva scansare, esempio di laissez-faire e cioè del capo che si volta dall’altra parte, preferendo il quieto vivere e il non fare a situazioni che riuscirebbe a controllare con fatica.
Tetsuya, il capo che tutti vorrebbero avere, quello che si prende cura delle proprie persone, del loro ben-essere, delle loro competenze e riesce a farle lavorare insieme raggiungendo gli obiettivi aziendali richiesti.

Quale capo intermedio si ottiene è purtroppo un processo assolutamente casuale, legato molto alle capacità individuali e non strutturato.
Insomma, se si ottiene un buon capo è stata proprio fortuna.

Potrebbe non essere così.

Si può formare un buon capo investendo sulla persona affinché possa acquisire tutta una serie di abilità che ne aumentino l’efficienza e l’efficacia: problem solving, analisi e miglioramento dei processi e dei metodi di lavoro, sviluppo delle competenze di intelligenza emotiva, e così via, tutte competenze che si possono apprendere.

Due conclusioni per finire.

Dal punto di vista del capo intermedio.
Egli deve sapere che deve curare anche gli aspetti non tecnici della sua attività di responsabile.
Se opera in un’azienda che non tiene in debito conto questi aspetti, può decidere di sviluppare un percorso di crescita e sviluppo personale e professionale.
Incontro spesso capi intermedi che occupati solo a correre non si sono mai fermati a curare lo sviluppo delle competenze di cui parlavo sopra, scoprendosi a un certo punto – per il mutare delle situazioni o la velocità dei cambiamenti – inadatti al ruolo e obsoleti nelle modalità operative e di relazione con le persone.
Si può, tuttavia, decidere di migliorare e sviluppare le competenze personali e mai come oggi l’apprendimento continuo rappresenterà un fattore distintivo e premiante.

Dal punto di vista dell’azienda.
E’ necessario porre al centro dell’impresa la persona, vero asset strategico.
Così come si prevede un budget per l’aggiornamento tecnologico è indispensabile aggiornare competenze e skill delle persone, sicuramente e in modo particolare quelle dei capi intermedi.
Poco e male viene fatto sotto questo profilo, inseguendo dei risparmi di costo che sono indicativi, per usare un eufemismo, di una visione di brevissimo termine, oppure non vedendo nemmeno il problema, entrambi segnali di un grave problema culturale che richiede un profondo ripensamento del modo di fare azienda, oggi troppo incentrato sulla tecnologia e quasi per nulla sulle persone.
I risultati sono evidenti: demotivazione, scarso impegno, ambienti dove prevale il disinteresse o la paura, livelli di professionalità in continuo declino e capi che o non sono capi o lo sono con le caratteristiche del capo di trenta anni fa.

Si discute spesso del martello e dell’incudine, ma quasi mai di quel pezzo di metallo semifuso che viene schiacciato, colpito e deformato nel processo di forgiatura.
Il fabbro, da artigiano sapiente e attento, sa bene cosa vuol ottenere ed è a quella sapienza che dobbiamo tornare, a meno che non crediamo che il futuro stia nel sergente Hartman o in Don Abbondio.

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Buona settimana
Massimo

 

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