I migratori. SuperQuack 2: viaggio nell’impresa.
Leggo dal sito di Repubblica un’intervista del 9 gennaio 2007 a Paolo Citterio, presidente Associazione direttori risorse umane e head hunter per il reperimento di executives e middle management:
In quali aziende si presenta più spesso il fenomeno di voler “lasciare”?
Soprattutto in quelle medie e piccole. Nelle imprese grandi c’è la “tavola dei rimpiazzi”, ciascuno è destinato ad andare in un posto superiore. Così quando uno dà le dimissioni, c’è sempre un altro che può prendere il posto. Nelle medie e piccole questa politica non c’è e le persone provano più disagio. Sono imprese che formano il tessuto italiano, ed è soprattutto in queste imprese che si impara bene a conoscere il funzionamento di un impresa, ma quando si sta in un’azienda piccola o media che non ti dà prospettive di carriera è meglio provare a cambiare.
Fa davvero bene cambiare azienda?
Il cambiamento fa bene. Quando si raggiunge un obiettivo è naturale volersi provare sul mercato per capire se si può fare un salto in più. Si vogliono trovare nuove responsabilità, verificare cosa si vale sul mercato. Cambiando si cresce. Ma attenzione, il cambio fa bene se non è molto frequente.
Sembra che tra le ragioni ci siano soprattutto una scarsa soddisfazione per la retribuzione. Sono queste le ragioni per cambiare azienda?
Sì, la retribuzione è una delle ragioni, ma non è l’unica. Non è da trascurare la prospettiva di carriera. Visto che si deve vivere cambiando azienda perché il posto fisso non c’è più, vogliamo starci bene in questa aziende e vogliamo fare in modo di guadagnare bene e il giusto. Questo è possibile solo se hai delle prospettive di carriera.
(…) Le aziende italiane fanno davvero tutto il possibile per far crescere I migliori talenti e trattenerli?
Purtroppo non tutte.
Cosa dovrebbero fare?
Dovrebbero scegliere i migliori e dirglielo. Qualcuno tende a non dirlo perché si dice che corrono il rischio di “montarsi la testa”. Per fare rimanere i migliori però è necessario fare formazione tecnica e manageriale e offrire loro una progressione di carriera esplicita. Bisogna fargli sapere quanto tempo impiegheranno a seguire i diversi passi. Condividere il tipo di percorso per ottenere dei risultati positivi. Certo che bisogna anche stare attenti a non creare invidie.
(repubblica.it –9 gennaio 2007 – Quando è opportuno provare un nuovo percorso. Di Federico Pace)
L’intervista risale a qualche anno fa ma fornisce comunque degli spunti interessanti.
Secondo le solite leggende metropolitane e i consigli dei ben informati, si dovrebbe cambiare azienda ogni due/quattro anni. Troviamo così legioni di “migratori” che, passati due/tre/quattro anni massimo, cambiano sistematicamente azienda.
Come stormi di uccelli al cambiare delle stagioni, i “migratori” passano da un’organizzazione all’altra.
Per correttezza intellettuale escludo dalla famiglia dei “migratori” quelle persone che:
a) trovano un ambiente di lavoro a loro non congeniale;
b) hanno contratti temporanei;
c) lasciano per preoccupazioni legate al futuro dell’azienda;
d) sono insoddisfatte della propria crescita personale e professionale (ne ho già parlato altrove);
Rimangono così i “migratori – carrieristi” o più precisamente gli “opportunisti”.
Fedeli al consiglio di cambiare a intervalli ben definiti, essi “migrano” con relativa facilità da un’azienda all’altra. I loro curricula sono elenchi molto lunghi di tanti lavori svolti, per breve tempo, in tante aziende diverse (tipicamente una ogni due/tre anni).
A ogni cambio “spuntano” uno stipendio più alto e/o una posizione migliore e così, saltando da un sasso all’altro (leggi azienda) come novelli caprioli, puntano a salire la vetta della propria carriera professionale.
Migratori-opportunisti…
L’opportunista è chi si comporta con opportunismo.
Opportunismo: comportamento per cui nella vita privata o pubblica, o nell’azione politica, si ritiene conveniente rinunciare ai principi o ideali, e si scende spregiudicatamente a compromessi per tornaconto o comunque per trarre il massimo vantaggio dalle condizioni e dalle opportunità del momento (Treccani).
Entrare nelle logiche e nell’esercizio di una professione richiede anni, mi risulta difficile comprendere come i “migratori”, che lavorano su progetti o organizzazioni per un tempo così limitato, possano davvero fare la differenza.
Ancora peggio se sono coinvolti in progetti con una prospettiva sul medio/lungo termine.
Non appena cominciano a capire qualcosa, se ne vanno…
Fedeli solo al proprio tornaconto personale non esitano a decidere per se stessi.
Di solito il “migratore” è molto bravo nella gestione della relazione personale, sa come presentare al meglio le proprie competenze (vere o presunte) e sa toccare i tasti giusti. Emana un’aurea di affidabilità e ispira fiducia.
A domande precise circa le motivazioni dei suoi cambi adduce sempre ottime ragioni di “cause di forza maggiore” (esterne) che purtroppo lo hanno costretto al cambio.
Tuttavia poiché il suo tratto caratteristico è l’opportunismo, a un’attenta osservazione emerge sempre una piccola nota discordante che s’interpreterà correttamente solo al momento che egli dichiarerà, con dispiacere, di dover “migrare” per qualche ragione più o meno fantasiosa.
Il “migratore” è anche il prodotto di comportamenti disinibiti agiti da molte organizzazioni che sono oramai molto brave a creare dipendenti sempre più disincantati, cinici e demotivati. Queste aziende incapaci di creare significato e ragioni per un impegno fattivo, prive di ogni interesse per la crescita delle persone, di fatto contribuiscono a creare ondate “migratorie”, vere e proprie transumanze di persone in fuga, prima tra tutti i “migratori” professionisti.
Il “comportamento migratorio” del nostro soggetto opportunista è anche il risultato dei consigli dei soliti maghi del self-help e di tanti pseudo esperti che promuovono comportamenti opportunisti e amorali dove passa il messaggio che la carriera e il titolo sono valori in se, rispetto ai quali si possono sacrificare altri di minor peso, quali la lealtà, la fiducia, l’impegno, ecc.
Vertici di alta poesia sono poi toccati dai “manager professionisti della migrazione”. Personaggi in posizioni di vertice che cambiano azienda, appunto ogni due o tre anni, lasciandosi alle spalle macerie e devastazioni che qualcun altro dovrà raccogliere.
Questi top manager, a prescindere dai risultati e dai disastri che hanno creato, hanno l’incredibile capacità di cadere sempre in piedi, e anche se l’azienda gestita nell’ultimo incarico è in agonia, si può star certi che li ritroveremo al vertice di un’altra struttura dove ricominciare il giochetto, tra proclami di gioia e aspettative esagerate di risultati e tutto questo nonostante una triste storia alle spalle.
Ci si potrebbe rifare ai molti casi di aziende famose di cui giornali e televisione hanno parlato, per trovare sempre i soliti professionisti della migrazione.
Le migrazioni possono avere – dal punto di vista del “migratore” – successo e produrre uno stipendio più alto e una posizione migliore o fallire.
Così “migratori” che si sono persi nei tanti cambi, cercano se stessi e un centro di gravità, diventando persone sempre più insoddisfatte e alla ricerca di un qualcosa che non riescono a trovare, quando in realtà la soluzione sarebbe smettere di cercare, fermarsi e impegnarsi in qualcosa in cui sentono di credere.
Migratore e mercenario condividono la prevalenza del tornaconto sul contributo, della facilità all’impegno, del titolo o della posizione alla responsabilità e al lavoro svolto con sforzo costante, una folle ricerca di strade facili che rischia di essere illusoria e ingannevole.
Un nuovo dirigente è un seme che viene piantato nell’impresa. Se la terra, il clima e l’umidità sono appropriati, ha il dovere e l’obbligo di dare buoni frutti attraverso il suo lavoro.
(…) Qualunque dirigente ha bisogno di un tempo di germinazione che possiamo dividere in tre fasi.
La prima è l’idratazione, in ci ha luogo un intenso assorbimento di acqua da parte dei diversi tessuti che formano il seme. Nello stesso identico modo, il nuovo dirigente si idrata sommergendosi e impegnandosi in tutte le opportunità e in tutti i problemi legati alla sua missione.
La seconda è la germinazione. In questa fase hanno luogo le trasformazioni metaboliche necessarie in vista del corretto sviluppo della pianta, mentre si riduce considerevolmente l’assorbimento di acqua. A sua volta il dirigente adegua il proprio metabolismo e, mentre capisce il nuovo ambiente, definisce gli sviluppi che intende apportare. A questo punto assorbe ben poco: non si concentra più soltanto sul ricevere, ma piuttosto pianifica il dare.
La terza fase è quella della crescita, che è associata all’apparizione della radichetta, il cambiamento morfologico visibile. Aumentano l’assorbimento di acqua e l’attività respiratoria. Nel caso del dirigente deve coincidere con la sua crescita professionale, basata sulla disponibilità di risorse e sul sudore di sette camicie.
Che cosa accade quando non si rispettano queste fasi? E’ semplice: se l’impresa-orto ha fornito la terra, il clima e l’acqua giusti e il dirigente se ne va prima del tempo, è uno stupido e tutto ciò che è stato investito su di lui è stata polvere da sparo sprecata in proiettili a salve. Oltre a diverse altre sciocchezze, di solito i tipi come lui spiegano che un cacciatore di teste con ambizioni da talent scout li ha tentati con una proposta impossibile da rifiutare, e grazie mille per tutto. E’ la classica scusa degli uccelli impazziti che becchettano il proprio curriculum. Non sanno che cosa significa contribuire alla crescita altrui; cercano solo la propria. Normalmente, al terzo volo finiscono sempre fotografati e impallinati.
E’ ben diverso quando l’impresa non mantiene nessuna delle sue promesse. Nelle terre aride, i buoni semi non devono durare più di quanto dura una luna di miele con eclissi totale di Sole.
(Joaquin Lorente – Pensa è gratis)
Io conosco il prezzo del successo: impegno, duro lavoro e un’inarrestabile devozione alle cose che vuoi veder succedere.
(Frank Lloyd Wright)
Design a better world …
Buona settimana
Massimo