La dignità del lavoro.Industry 4.0, robot, intelligenza artificiale, preoccupazioni sul futuro del lavoro, sono tutti temi di grande attualità.
Questa settimana vorrei proporre qualche pensiero proprio sul lavoro, iniziando con una lunga e, spero, interessante citazione di Crawford, filosofo e meccanico, titolare tra l’altro di un’officina per la riparazione di motociclette in Virginia.
Buona lettura.
(…) Nel ventesimo secolo sono stati compiuti sforzi deliberati per aumentare il divario tra il pensare e il fare: sforzi che sono andati a buon fine, dando un nuovo assetto all’economia; ed è proprio questo successo a far si che tale divario noi oggi lo diamo per scontato. Eppure dire che si tratta di un successo è contro natura, perché la scissione tra pensiero e manualità, ove è stata attuata, ha causato uno svilimento del lavoro. Se riusciamo a capire come mai tante occupazioni subiscono questo processo di frammentazione, ci sarà più facile riconoscere le aree che a tale frammentazione hanno resistito, e dunque le occupazioni in cui le capacità dell’uomo sono impiegate al meglio.
Negli anni Cinquanta i sociologi iniziarono a notare alcune fortissime somiglianze tra la società sovietica e quella occidentale: in particolare il numero crescente di lavori progressivamente semplificati. Entrambe le società erano in prevalenza industriali, e avevano in comune una separazione sempre più netta fra pianificazione ed esecuzione.
Talvolta si tendeva a dare la colpa di questo all’automazione, ma a una più attenta analisi non poteva sfuggire che le cause erano da ricercarsi nei dettati dell’amministrazione razionale, vale a dire di una specie di “tecnologia sociale” fondata sulla divisione del lavoro; la vera macchina era proprio il tessuto sociale, costituito da elementi sempre più standardizzati. Nei paesi di area sovietica la macchina era sottoposta al controllo centrale dello Stato; nel mondo occidentale a quello delle aziende.
Nel 1974 Harry Braverman pubblicò il suo capolavoro di analisi economica, ‘Lavoro e capitale monopolistico. La degradazione del lavoro nel XX secolo.’, Braverman era un marxista dichiarato. Ora che le sorti della guerra fredda sono state decise, possiamo ricominciare a esaminare, senza timore di una minaccia politica mortale, il concetto marxiano di alienazione. Come ammette lo stesso Braverman, l’Unione Sovietica non è meno colpevole delle società capitalistiche. Egli descrive minutamente il graduale svilimento di svariate tipologie di lavoro. Con la sua analisi egli arriva a spiegare nientemeno che le ragioni dei processi di istupidimento che anno per anno progressivamente ci coinvolge: vale a dire che il degrado del lavoro è in ultima analisi un problema cognitivo dovuto alla separazione tra pensiero e manualità.
La degradazione del lavoro operaio
Il principale responsabile, secondo Braverman, è lo scientific management, la direzione scientifica del lavoro, che “non entra nel luogo del lavoro in nome della scienza, ma in rappresentanza della direzione aziendale che si nasconde dietro gli orpelli scientifici”. Le teorie su cui si fonda l’organizzazione scientifica vennero esposte per la prima volta, e con brutalità da Frederick Winslow Taylor, in ‘L’organizzazione scientifica del lavoro’; si tratta di teorie destinate a influenzare profondamente la società dei primi decenni del Novecento. Stalin ne andava pazzo, e così i fondatori del primo corso universitario di amministrazione aziendale di Harvard, dove Taylor veniva invitato a tenere conferenze ogni anno.
Taylor scrive: “I direttori assumono … il carico di riunire tutte le conoscenze tradizionali, che nel passato erano dagli operai possedute, e quindi di classificare, compararle e dedurne regole, leggi e formule”. Le competenze un tempo suddivise tra i vari artigiani ora si concentrano nelle mani del datore di lavoro, che le dispensa nuovamente ai lavoratori sotto forma di istruzioni dettagliatissime, necessarie per eseguire una parte di quello che è ora un processo, un processo destinato a prendere il posto di attività un tempo complesse, che affondavano radici nella tradizione e nell’abilità artigianale, che nascevano anche dall’immagine che il lavoratore stesso aveva del prodotto finito e dall’intenzione che nutriva verso di esso. Di conseguenza, scrive Taylor, “ogni lavoro mentale deve essere rimosso dalla fabbrica e concentrato nei reparti di pianificazione e progettazione”. Sarebbe un errore pensare che lo scopo primario di questa divisione sia quello di rendere più efficiente il lavoro; non è detto che si riesca a ottenere un valore superiore in termini di ore di manodopera; la preoccupazione è qui il costo della manodopera. Delegando gli aspetti cognitivi del lavoro a una classe dirigente separata, o meglio a un processo che, a sua volta progettato, non richiede decisioni e valutazione in corso d’opera, si possono sostituire gli artigiani competenti con operai non specializzati che percepiscono salari più bassi. Il suo schema di riorganizzazione del lavoro, scrive Taylor; “le potenzialità” del suo sistema “non saranno realizzate appieno che quando la maggior parte delle macchine dello stabilimento saranno azionate da uomini di competenza e levatura inferiori, la cui manodopera avrà di conseguenza un costo più basso di quella necessaria secondo l’antico sistema”.
Ma che fine fanno gli operai specializzati? “Vanno altrove” si illude ingenuamente qualcuno. Ma i vantaggi ottenuti grazie al taglio dei costi della manodopera dalle ditte più all’avanguardia, quelle che avevano separato nettamente la pianificazione dalla produzione, per la legge del mercato costringevano ora tutto il settore industriale a fare lo stesso, causando la sparizione completa di alcuni mestieri specializzati. Così il sapere artigianale va estinguendosi, o meglio si ricicla in un’altra forma, come sapere intrinseco a un processo produttivo. L’operaio non ha idea di quale sia il progetto per cui sta lavorando.
Il management scientifico introdusse “l’analisi cronotecnica” per definire le possibilità fisiologiche del corpo umano in relazione alla macchina. Braverman scrive: “Quanto più il lavoro è diretto da movimenti classificati che attraversano i confini dei mestieri e delle occupazioni, tanto più esso dissolve le sue forme concrete in movimenti di lavoro di tipo generale. Questo meccanico esercizio delle facoltà umane secondo tipi di movimenti studiati indipendentemente dal particolare genere di lavoro da compiere, realizza la concezione marxiana del ‘lavoro astratto’ ”. L’esempio più lampante di lavoro astratto è quello della catena di montaggio.
L’attività composita del lavoratore viene frantumata, resa astratta e poi ricomposta in una sequenza controllata dalla dirigenza. Il lavoro tritato a salciccia.
All’inizio del secolo scorso le auto venivano fabbricate da artigiani precedentemente impiegati in officine di biciclette o carrozze: erano meccanici specializzati, che conoscevano bene il loro mestiere.
(…) Non sorprenderà che gli operai, abituati a un mondo tanto ricco da un punto di vista cognitivo, con l’avvento della catena di montaggio introdotta da Henry Ford nel 1913, semplicemente prendessero e se ne andassero. Scrive uno dei biografi di Ford: “Verso la fine del 1913 il disgusto dei lavoratori per il nuovo sistema di automazione era tale che, ogni volta che la società desiderava aggiungere 100 uomini al personale di fabbrica, era necessario assumerne 963”.
Si tratta, pare, di un momento cruciale nella storia dell’economia politica. Il nuovo sistema provocò, a quanto sembra, una naturale repulsione. Eppure a un certo punto i lavoratori ci si abituarono: come accadde? Sorge spontanea una domanda: qual era la tipologia umana di questi 100 su 963 che resistevano alla catena di montaggio?
(…) In una temporanea sospensione della logica tayloristica, Ford fu costretto, per tenere attiva la catena di montaggio, a raddoppiare il salario giornaliero dei lavoratori. Questo fatto, secondo Braverman, “dischiuse nuove possibilità per l’intensificazione del lavoro in fabbrica, dove ora gli operai erano ansiosi di conservarsi il posto”. Questi lavoratori, così preoccupati di mantenere il posto, erano più produttivi, tanto che Ford ammise che l’aumento del salario era stata “una delle migliori mosse per abbattere i costi che abbiamo mai fatto”, perché poteva raddoppiare, e successivamente triplicare, la velocità con cui le automobili venivano assemblate semplicemente velocizzando il nastro trasportatore. Così facendo debellò la concorrenza, e anche la possibilità di usare metodi di lavoro alternativi.
La degradazione del lavoro d’ufficio
Tutte le chiacchiere sul cosiddetto “lavoro del futuro”, volte a far scomparire i corsi di materie tecniche nelle scuole a spedire chiunque respiri all’università per poi chiuderlo tra le quattro mura di un ufficio, sono un chiaro segno del fatto che stiamo andando verso un’economia postindustriale in cui tutti dovranno occuparsi soltanto di concetti astratti. Ma trafficare con concetti astratti non significa pensare. Il lavoro dei colletti bianchi sta subendo lo stesso degrado, lo stesso processo di “routinizzazione” toccato cent’anni fa ai colletti blu: gli aspetti del pensiero creativo del lavoro vengono tolti ai singoli professionisti, inglobati in un sistema o processo, e infine affidati a una nuova categoria di lavoratori più umili, impiegati generici, che prendono quindi il posto degli specialisti.
(Matthew Crawford – Il lavoro manuale come medicina dell’anima)
Le considerazioni di Crawford fanno riflettere e toccano tanti argomenti centrali.
Non vi è dubbio che l’industrializzazione dei primi del secolo scorso, pur con i suoi tanti paradossi ha prodotto anni di crescita, sviluppo e un generale miglioramento delle condizioni di vita. Tuttavia la separazione tra pensare e fare ha causato e provocherà molti problemi nel prossimo futuro. E’, infatti, strettamente correlata alla motivazione e alla dignità del lavoro e al ruolo delle persone nelle organizzazioni.
Ogni nostra speranza che il mondo del lavoro vada verso una maggiore libertà si scontra inevitabilmente con la realtà della vita economica: il lavoro è noioso ed è al servizio di interessi altrui. Ecco perché ci pagano. E ora, in questa vena più sobria, la vera domanda è: che cosa auguriamo a un giovane quando gli diamo dei consigli sulla sua carriera futura? L’unica risposta credibile, secondo me, è quella che evita atteggiamenti utopici pur tenendo d’occhio il bene dell’essere umano: un lavoro che coinvolga il più possibile le capacità della persona.
(Matthew Crawford – opera citata)
Sapere che il lavoro contribuirà a rendere ancora più ricca una persona che già lo è, sia essa un’azionista da qualche parte o un manager o un imprenditore, non può essere una risposta convincente. Chi percepisce un salario, ha l’obbligo di svolgere il suo lavoro nel migliore dei modi; in fin dei conti un rapporto di lavoro è un contratto: a fronte di una prestazione da parte del dipendente il datore di lavoro eroga un compenso.
Ridurre il lavoro all’esecuzione di un contratto non stimola né passione né un impegno che possano andare oltre gli obblighi contrattuali e forse oggi, abbiamo proprio bisogno di passione e impegno. Quella passione e quell’impegno che troppe persone trovano in attività esterne al lavoro: volontariato, hobby, etc., quasi che ci sia oramai una separazione irrecuperabile tra lavoro e passione.
Per molti, il lavoro e la professione rappresentano una parte importante della propria identità: noi siamo anche il lavoro che facciamo.
Le sfide di mercati in veloce cambiamento richiederanno sempre di più un impegno diverso dall’eseguire attività di routine o compiti semplificati, per questo i robot o software sofisticati, per quanto abili, non potranno essere l’unica soluzione.
La vera sfida è dare un nuovo significato e una nuova dignità al lavoro permettendo così di ritrovare l’orgoglio di lavorare nella propria azienda, passione e impegno.
L’argomento è impegnativo ma anche affascinante; sarà con piacere che leggerò e segnalerò eventuali commenti o osservazioni che tu, amico lettore, vuoi condividere.
Ritornerò ancora sul tema.
Design a better world …
Buona settimana
Massimo
2 Comments