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Le tristezze dei budget sulla formazione.

By 5 Marzo 2017 Marzo 29th, 2018 No Comments

Le tristezze dei budget sulla formazione.14118661_xl Non tutto ciò che può essere contato conta e non tutto ciò che conta può essere contato.
A.Einstein

Svolgiamo alcune attività che potremmo classificare di “formazione”, anche se condotte in modo molto particolare e con contenuti originali, sforzandoci di guardare oltre, cioè alle competenze che serviranno nel prossimo futuro.

Ci capita così, che qualche nota società di consulenza (un giorno, deciderò anche di fare qualche nome, così … per informare correttamente il pubblico) cerchi di copiare i nostri format e i temi e questo, al di là di tutto, è un segno che riusciamo a essere innovativi.

L’attività di formazione per noi marginale è a supporto delle attività che svolgiamo, creando degli spazi che puntano ad approfondire aspetti e competenze non affrontabili in un’attività in azienda e su argomenti nuovi e originali.
Siamo molto spesso contattati da chi chiede informazioni sui contenuti, sulle modalità, sui costi, etc., insomma le solite cose.

Trovo, tuttavia, molto singolare che alcune aziende, con fatturati di decine o centinaia di milioni di euro, rispondano frequentemente che hanno esaurito il budget della formazione anche quando le cifre in questione sono di poche migliaia di euro e soprattutto, quando si è all’inizio dell’anno.

Se non ci fosse da piangere, bisognerebbe ridere.
Forse per fare il budget si sono rivolti a Paperino…

E’ uno tra i vari casi, che dimostrano lo stato di decadenza nella quale versa la “formazione” in Italia e della visione molto corta di alcune aziende e di alcuni manager.
Per non parlare poi di una funzione “Risorse Umane”, che in molti casi purtroppo, già nel nome (l’uso del termine “risorsa” rimanda all’economia classica e alle risorse definite dalla teoria economica: capitale, lavoro, terra), è ancorata alle logiche “classiche”.

Il problema può essere analizzato sia da lato della domanda – le aziende – che dal lato dell’offerta – i “formatori”.

La domanda
Due fatti emergono con chiarezza nello scenario italiano.

Primo: la formazione deve costare poco o meglio ancora, essere finanziata.
Ligi alla missione, certi responsabili della formazione l’affrontano come si approccerebbero a un catalogo di una ferramenta (non me ne voglia chi tratta cose utilissime e importanti come bulloni, viti e martelli), comprando attività formative come oggetti (viti e bulloni) e cercando di spuntare il prezzo più basso, come se chi eroga formazione (che è un’azienda) non abbia a sua volta dei criteri di economicità (costi/ricavi) dai quali non può prescindere. Inoltre dimenticano che, come un’azienda investe in ricerca e sviluppo, anche chi si occupa di formazione in modo serio e responsabile, deve continuare a ricercare, studiare, investire per mantenere aggiornata la propria offerta e le proprie persone.

Nascono poi i “corsi a catalogo”, i “fabbisogni formativi” e tutta una serie di attività svolte con livelli diversi di competenza e approfondimento.

Un trend recente di qualche azienda più strutturata, è quello di creare “academy” interne che, immagino, nascono prima di tutto con l’obiettivo di contenere i costi, di dare lavoro alle strutture di supporto (le varie funzioni delle risorse umane) e in qualche caso più illuminato, di sviluppare davvero competenze aziendali, secondo piani e progetti specifici concepiti dall’azienda stessa con una visione di medio-lungo periodo.
A strutture così fatte si affiancano reti preferenziali di fornitori che devono avere tutta una serie di caratteristiche (tra cui essere economici, in molti casi) per poter lavorare con l’academy.

E’ noto che durante i tempi di crisi le prime cose che le aziende tagliano sono i costi di cancelleria e le spese di formazione, seguite dalle teste, compiendo così scelte sempre di breve-brevissimo termine che “salvano i numeri”. Le aziende che sono illuminate e sopravvissute alla crisi, credendo, alla fine, nel valore della formazione (anche perché altrimenti non riuscirebbero a trattenere i più brillanti) investono nello sviluppo delle competenze.
Ma senza esagerare però!
Nascono così i “budget di Paperino” che danno una parvenza di consistenza allo sviluppo delle competenze, ma finanziati poco e male, cosa che tradisce la vera importanza riconosciuta alla crescita dei propri collaboratori, mentre altre attività (acquisto di tecnologia, software, marketing) ricevono cifre, di diversi ordini di grandezza, superiori.

Secondo: per alcune aziende, e per alcuni manager e imprenditori, la formazione è considerata una perdita di tempo.

Questi manager e imprenditori rimangono fedeli al fatto che il dipendente non deve essere distratto e rimanere concentrato e impegnato nel fare il lavoro.
Esistono ancora oggi organizzazioni che giudicano la “quantità”: valutano i propri collaboratori, anche in funzione del tempo speso al lavoro.

Si vedono situazioni assurde: investimenti in tecnologia e macchinari di qualche milione di euro decisi velocemente e con convinzione, mentre investimenti nelle proprie persone di qualche decina di migliaia di euro (il rapporto tra un milione di euro e cinquanta mila euro – cifra con la quale si potrebbero fare molte cose sul fronte dello sviluppo delle competenze – è di 1:20!) sono considerati “importanti” e costosi per cui non vengono concessi e sono tagliati senza pensarci un minuto. Anzi non sono nemmeno presi in considerazione.

I risultati sono evidenti e sotto gli occhi di tutti, se naturalmente li vogliamo vedere: abbassamento della competenza professionale (a tutti i livelli, manager inclusi), demotivazione e non appena il mercato lo permette, spostamenti continui da un’azienda all’altra. Avverti che qualcosa in quell’azienda sta avvenendo quando assisti alle “transumanze”, spostamenti, di solito dei più svegli e brillanti, di persone che “fuggono” in cerca di posti migliori.

Per fortuna ci sono anche delle eccezioni, naturalmente, che brillano in modo particolare, ma ho la sensazione che siamo preda di pulsioni ataviche dalle quali molti faticano a liberarsi.

L’offerta
Le cose non vanno meglio sul lato dell’offerta.
La formazione è un business enorme e quindi attrae soggetti seri e anche pescecani.

La presenza di alcune società nell’ambito della formazione professionale che esistono e vivono solo per un’azione d’intermediazione, tra chi eroga il finanziamento e chi lo utilizza spuntando una commissione per lo svolgimento delle parti burocratiche della richiesta, crea un sottobosco che certamente non aiuta.
Non so più quante volte mi è stato chiesto di fatturare personalmente per usufruire di certi finanziamenti erogati a soggetti con partita IVA e questo nonostante abbia deciso di non fare il libero professionista ma abbia costituito una società, situazioni che abbiamo deciso di evitare e alle quali opponiamo un cortese rifiuto.
Non si capisce perché una società che produce beni materiali debba emettere una fattura e noi nel settore servizi che eroghiamo formazione dovremmo emettere una fattura personale. Stranezza dei finanziamenti…

La crisi, il conseguente riversarsi sul mercato del lavoro di ex-manager con una certa età che non riescono a trovare una nuova occupazione, tipica della mancanza di flessibilità del mercato di lavoro italiano, ha obbligato molte di queste persone a reinventarsi un lavoro e a entrare così nel business della formazione con il risultato di aumentare la confusione, abbassare i prezzi e in alcuni casi, forse troppi, anche la qualità.
La presenza dei finanziamenti di cui parlavo più sopra, ne fa i soggetti preferiti per i sistemi di finanziamento a partita IVA.

Alcune organizzazioni incapaci di arrestare l’emorragia degli iscritti e in crisi d’identità, hanno allargato la loro proposta nel tentativo di aumentare l’offerta e attuare così una contromisura rispetto al ridimensionamento del business. E’ il caso di Confindustria che propone tutta una serie di servizi di formazione gratuiti per i propri membri, entrando così in diretta concorrenza proprio con alcune delle aziende iscritte.

Alcune società di formazione cavalcando l’onda de “la formazione deve costare poco” pubblicizzano le proprie attività di training facendo leva sul prezzo (qualità e argomenti sono tutta un’altra storia), oppure proponendo modalità di formazione che non solo non hanno in realtà nulla di innovativo, ma trascurano o ignorano quelle che le scienze hanno oramai dimostrato sull’apprendimento degli adulti, puntando tutto sull’aspetto “esperienziale” vuoto di contenuti e privo basi teoriche adeguate, quasi che si punti di più all’impatto, alla memoria del momento che a una solida costruzione delle conoscenze e competenze che si alimenta anche di costrutti cognitivi e teorici, oltre che di esperienze.

Un nostro caro amico e serio professionista, Roberto Grandis, presidente di Empatheia, ha scritto in una lettera aperta del novembre 2016, intitolata La formazione è morta viva la formazione:

(…) “Una cosa è l’addestramento, altra la formazione.”
Negli anni ’70, periodo aureo della formazione nel nostro Paese, questa distinzione venne spesso utilizzata dagli addetti ai lavori per distinguere nettamente due obiettivi: “L’addestramento – si diceva- è Sapere e Saper fare, la formazione ne aggiunge un terzo: il Saper essere.
Non furono necessari molti anni per smascherare le contraddizioni di simile affermazione: non esiste, in natura, un Saper fare che non implichi anche un Sapere; non c’è Saper essere senza oggetto, privo cioè di Sapere e Saper fare. Un’azione formativa, compreso quello che veniva definito “addestramento”, agisce sempre globalmente sulla personalità dell’allievo. 
 
Questo il nuovo caposaldo dell’azione formativa che si arricchiva, in tal modo e qualunque fosse il contenuto, di concetti quali “personalità”, “relazione”, “motivazione”, “empatia”. Il Cosa si trasmetteva aveva la stessa importanza del Come lo si trasmetteva, secondo la logica ampiamente ripresa dal primo assioma della comunicazione che, in quei tempi, era sulla bocca di tutti “E’ impossibile non comunicare”. Lo stesso ambiente nel quale la formazione veniva erogata, gli strumenti utilizzati, la personalità del docente e le tipologie di linguaggio ne determinavano il risultato al pari dei contenuti.

Si stabiliva l’importanza di una Teoria della Formazione, nell’ambito della quale veniva anche a chiarirsi il rapporto tra metodologia ed apprendimento. Le metodologie d’aula dovevano variare a seconda delle finalità dell’apprendimento auspicato, procedendo da metodologie più “didattiche” fino a quelle più “esperienziali”, arrivando, punta dell’iceberg, al T-Group di spaltriana memoria. Le stesse metodologie, poi, non erano da ritenersi esaustive, ma occorreva una sapiente alternanza delle medesime per raggiungere il risultato desiderato, anche considerando che cambiamento individuale e cambiamento organizzativo non per forza coincidono. Diveniva così fondamentale distinguere, anche denominandole in modo differente, l’Andragogia, ovvero le leggi dell’apprendimento degli adulti, dalla Pedagogia termine che rinvia ai fanciulli e alla loro educazione.
In queste logiche, la Formazione richiedeva per i futuri “addetti ai lavori” un training serio, qualificato e ampiamente sperimentale. Non per nulla tutti quelli che, ancora oggi, sono i testi fondamentali della Formazione, vennero pubblicati in quegli anni. Quasi tutto ciò che uscì successivamente è  una pura rivisitazione di quelle idee o, nel peggiore dei casi, un’azione di copia-incolla.

(…) La necessità di tagliare sui costi, sui tempi e, spesso, sulle stesse persone, ha portato certa formazione a far propria una sorta di cultura taylorista: la richiesta di una formazione “mordi e fuggi” caratterizza spesso le strutture formative aziendali, abituate a misurare “tutto e subito” ogni azione organizzativa. Non che la formazione non debba essere misurata, ma ad essa non possono assimilarsi logiche finalizzate  a testare ogni cosa fuorché l’apprendimento o, a maggior ragione, la crescita del Saper essere individuale. Si ritiene così che l’intervento formativo, ritornando alla cultura dell’addestramento, possa incidere “sic et simpliciter” sulle personalità, sui comportamenti e sulla motivazione individuale, al pari di una medicina (“la motivina!”) da erogarsi a dosi massicce. Nessuno spazio alla assimilazione, alla riflessione e al personale accomodamento.
Si prende quale unico strumento di misurazione dell’intervento formativo il questionario di valutazione di fine intervento che misura esclusivamente la gradevolezza, evitando di testare sia nuovi apprendimenti sia la trasferenzialità dei medesimi.
L’utilizzo a dosi massicce della logica della misurazione trascura il fatto che la formazione è anche “arte” nel momento in cui, appresa a fondo la tecnica, il formatore deve personalizzare l’intervento con un sapiente intuito assai poco misurabile e assolutamente incompatibile con certi strumenti (es.: la “famigerata” microprogettazione) che si rifanno a precise logiche tayloristiche.
 
Insomma c’è molto da cambiare.

Ecco perché trovo singolare che aziende importanti e ben conosciute facciano budget (della formazione) striminziti, e che alcune aziende, slogan a parte, non credano nello sviluppo delle proprie persone perseguendo logiche antiche in un mondo che aggiunge, crea e integra conoscenze e informazioni alla velocità di Internet.

E cos’è un’azienda se non un’organizzazione che apprende?
E se vuole rimanere con successo sul mercato, non dovrebbe preoccuparsi oltre che dell’aggiornamento tecnologico anche di aggiornare le competenze delle proprie persone?

La formazione, quella seria e ben fatta, non può sempre essere contata, ma conta davvero… per costruire il futuro.
Pensiamoci…

Design a better world …

Buona settimana
Massimo

 

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