Il mestiere di capo 5. La paura dell’ombra.Capii che la paura non aiuta e non serve a nulla.
(Anna Frank)
A volte ci sono delle cose che non si dicono, fino a quando qualcuno non rompe il velo del silenzio…
E se dire “l’indicibile” (cioè quello che non si può dire) è scomodo, ancora più difficile è ascoltarlo o … leggerlo!
Se sei un capo e vuoi vivere tranquillo non proseguire nella lettura.
La verità a volte è come una freccia che colpisce dritto al cuore e fa male.
Il ruolo dei capi ha zone d’ombra. E l’ombra, con il suo celare (nascondere), spaventa.
Molti capi sono proprio come la signora Luisa, arrivano presto e finiscono presto, cioè non tengono conto che ci sono lavori che non si possono fare a mezzo servizio. E il mestiere di capo è uno di quelli.
(…) Alcuni capi non si vogliono sporcare le mani. Vogliono solo il lato A del mestiere di capo, quello del titolo, magari dello stipendio e del bonus, della visibilità, ma non quello del lato B, ossia dell’impegno, del lavoro, del trattare con situazioni di relazioni anche complesse e a volte difficoltose, della comunicazione e del feedback, necessari per essere un buon capo. Solo questo tema giustificherebbe altre e ben più profonde riflessioni.
(Post del 8/5/16 – Il mestiere di capo 3. Il management della signora Luisa.)
E’ arrivato il momento di fare quella famosa riflessione…
Nell’epoca del disimpegno e del pensiero debole alcuni capi non vogliono “impegnarsi”, vogliono i risultati, ma non sono disposti a fare fatica per ottenerli. Così, vedono il loro ruolo come quello di chi dà ordini e disposizioni, lasciando poi ai collaboratori il compito di eseguirli.
Rimango sempre sorpreso quando vedo il responsabile che, nei momenti di particolare impegno, lascia i suoi collaboratori a districarsi nel caos, e come la signora Luisa, va via presto. Esempio di moderno burocrate molto abile nel dire: “fate”! Pensando che solo per aver creato – apparentemente – le condizioni, il suo compito sia terminato.
Capi che non resistono allo stress, che appaiono sempre affaticati, concentrati sempre su qualcos’altro e che passano al lavoro molto meno tempo dei loro collaboratori.
Capi dalla giornata di sei ore.
Impegnati in tutta una serie di attività sociali che sono il loro vero lavoro.
Tutto questo non ha nulla a che fare con le “pubblic relations”, ma ha invece molto a che fare con alcuni valori che si sono purtroppo imposti negli ultimi anni: la visibilità, il rifiuto dello sforzo e priorità che tradiscono i veri interessi.
Sono i capi a mezzo servizio e per questo mezzi capi.
I movimenti politici spesso devono il proprio successo a un personaggio carismatico, un oratore brillante che sa incantare ed entusiasmare i suoi sostenitori, che propone l’idea di un mondo migliore e quindi viene accolto come un messia.
(…) Tuttavia spesso non rispondono alle aspettative che hanno suscitato, dimostrandosi semplici seduttori piuttosto che personalità leader: ai loro gesti accattivanti non fa seguito nessuna azione e le visioni preannunciate restano dei sogni.
(…) Chi è dotato di grande carisma corre il pericolo di diventare preda di un narcisismo autolesionista: è ciò che accade quando cessa di interessarsi e di occuparsi delle persone che lo seguono.
(…) Noi desideriamo avere leader, capi, dirigenti e statisti che siano dotati di carisma e autorità. Ma vogliamo anche che essi costituiscano un modello. Per questo tendiamo ad avere come modello di leader una guida carismatica. Ci auguriamo di avere al vertice uomini o donne che si comportino da leader e che agiscano con equità, che ci offrano protezione, che suscitino in noi dei sentimenti e che possiamo ammirare.
(Bernhard Bueb – Le 9 regole della scuola)
Quei capi che citavo più sopra, che tipo di modello rappresentano?
E tu che modello sei per le tue persone?
Sei della serie “fate-quello-che-dico-ma-non-quello-che-faccio”, oppure sei un leader credibile?
Può guidare gli altri in modo efficace solo colui che si pone come modello. (B.Bueb – opera citata)
Dobbiamo decidere che modello vogliamo essere.
La capacità di prendere in fretta le decisioni giuste così che esse portino a un buon fine incrementa la fiducia degli altri nelle proprie capacità direttive. Chi pondera e temporeggia troppo infonde negli altri un senso di insicurezza. Il coraggio di esprimere un giudizio intuitivo e portare avanti una decisione nonostante numerose resistenze è segno di una forte personalità leader. (B.Bueb – opera citata)
Molti capi non decidono, si dibattono nell’incertezza, richiedono report, analisi e continui consulti, anche in situazioni così chiare che dovrebbero spingere all’azione.
Si fanno sedurre dalle facili ricette e dai tanti guru prezzolati che con belle parole li portano da… nessuna parte!
La vera grandezza però è quella di chi possiede anche il coraggio di tornare sui propri passi rivedendo una posizione che ha riconosciuto come sbagliata. (Bernhard Bueb – opera citata)
Molti capi sono piccoli, perché non rivedono mai le proprie convinzioni e posizioni, fornendo prova di una rigidità da antica Inquisizione. E da novelli inquisitori negano l’evidenza e accendono roghi…
La verità a volte colpisce per la sua semplicità:
Il signor K. era circondato da un’aurea di potere. Ogni mattina compariva in azienda con la massima puntualità: si sarebbe potuto regolare l’orologio sul suo arrivo. Quella puntualità era espressione della sua affidabilità. Il suo arrivo diffondeva sicurezza e aveva un effetto ordinatore sui suoi collaboratori. Dopo una breve sosta in ufficio era solito fare un giro per l’azienda: la maggior parte delle volte visitava un reparto o si recava da un impiegato anziano per poter discutere di alcune questioni in sospeso. Egli utilizzava quella visita per mostrare la propria presenza, per osservare, per salutare i dipendenti e magari per avere un colloquio con qualcuno di loro. Visitava soprattutto i reparti della produzione: da lui ci si poteva sempre aspettare una parola di incoraggiamento anche per gli apprendisti. A volte si faceva spiegare qualcosa: quei momenti erano molto attesi, ma anche un po’ temuti poiché poneva domande precise e si aspettava risposte altrettanto precise.
(Bernhard Bueb – opera citata)
Mostrarsi, osservare, salutare e parlare: tutto qui? A pensarci bene invece è molto, è la presenza dell’azienda che è lì, pronta a supportare e ad aiutare le proprie persone, a farle crescere perché quei colloqui sono un apprendimento quotidiano.
Il signor K. conosceva bene la sua azienda perché andava in presa diretta.
Il signor K. aveva fondato quell’azienda e l’aveva portata al successo. Sotto la sua guida i dipendenti si sentivano al sicuro, perché per loro egli era garante di buona riuscita. Nei periodi di crisi manteneva la calma e aveva sempre un effetto distensivo (altro che le reazioni isteriche come si vede in molti casi!). La qualità che i suoi impiegati maggiormente apprezzavano era che il signor K. sembrava sempre avere tempo – per un colloquio, per ascoltare, per girare nella sua azienda (presenza e attenzione piena e concentrata, non distratta dall’ultimo messaggio ricevuto sul cellulare!). La sua identificazione con la ditta contagiava gli altri; la loro identificazione con il capo d’altro canto faceva sì che essi vivessero i progressi del loro lavoro come un successo personale.
Un imprenditore deve sapere bene quanto egli dipenda dai propri collaboratori e quanto essi dipendano da lui. Credere a questa correlazione e confermarla ogni giorno accrescerà la libertà interiore dei dipendenti. Essi devono essere consapevoli di detenere a loro volta del potere: la loro sensazione di indipendenza accrescerà il loro benessere e la loro capacità lavorativa. (Bernhard Bueb – opera citata)
Altro che mail, capi sempre impegnati e mai disponibili o aziende dove per comunicare tra un ufficio e l’altro si usa Skype!
Oppure capi che si trincerano dietro a muri di procedure che non funzionano e creano solo problemi alle persone perché impongono disposizioni costruite a tavolino, in qualche ufficio, senza nessuna conoscenza della reale operatività aziendale.
Il mondo in generale e quello del business in particolare, sta attraversando cambiamenti epocali di cui pochi sembrano essere consapevoli e purtroppo assistiamo a una continua diminuzione di professionalità, non solo a livello dei dipendenti ma anche e soprattutto in molti di coloro che avrebbero la responsabilità di guidare l’azienda in modo diverso, innovativo e più umano.
E’ dura ammetterlo, ma abbiamo capi che non sanno fare i capi (nel senso nobile del termine, ovviamente)!
Ho scritto spesso delle tante mode passeggere e dei tanti blocchi mentali che caratterizzano un mondo aziendale in veloce cambiamento, ma niente può sostituire la mancanza di una leadership lungimirante, innovativa e coraggiosa.
Questa mancanza è figlia dell’epoca del disimpegno, del rifiuto del sacrificio e del compromesso su alcuni valori che sono universali.
Solo riportando al centro valori e persone, unite a nuovi e più solidi processi e modi di pensare, le aziende potranno trovare una strada verso un successo sostenibile nel tempo.
Una cronica mancanza di leadership non può essere sostituita da facili schemi e simpatiche ricette.
E a proposito di paura, in un intervento alla Luiss Business School, l’AD di Enel, Francesco Starace, a una domanda di uno studente che chiedeva “quali sono gli ingredienti di una ricetta di successo del cambiamento” ha risposto:
“Per cambiare un’organizzazione ci sono alcune cose abbastanza semplici e stranamente, viene sempre creato un problema sul cambiamento.
Per cambiare un’organizzazione ci vuole un gruppo sufficiente di persone convinte di questo cambiamento; non è necessario sia la maggioranza, basta un manipolo di cambiatori. Poi vanno individuati i gangli di controllo dell’organizzazione che si vuole cambiare e bisogna distruggere fisicamente questi centri di potere. Per farlo, ci vogliono i cambiatori che vanno infilati lì dentro, dando ad essi una visibilità sproporzionata rispetto al loro status aziendale, creando quindi malessere all’interno dell’organizzazione del ganglio che si vuole distruggere. Appena questo malessere diventa sufficientemente manifesto, si colpiscono le persone opposte al cambiamento, e la cosa va fatta nella maniera più plateale e manifesta possibile, sicché da ispirare paura o esempi positivi nel resto dell’organizzazione. Questa cosa va fatta velocemente, con decisione e senza nessuna requie, e dopo pochi mesi l’organizzazione capisce perché alla gente non piace soffrire. Quando capiscono che la strada è un’altra, tutto sommato, si convincono miracolosamente e vanno tutti lì. È facile.”
Ne Il fatto quotidiano del 31 maggio, è riportata la precisazione dell’AD, accortosi della clamorosa scivolata: “Mi rendo conto di avere sbagliato la scelta delle parole su come si porta avanti un cambiamento in un’azienda”. Firmato, Francesco Starace. E’ con una lettera ai dipendenti di Enel che l’amministratore delegato del gruppo è tornato sulle polemiche nate dalle sue frasi pronunciate davanti agli studenti dell’Università Luiss di Roma ad aprile. Starace punta il dito contro “la facile strumentalizzazione che è seguita nel mese di maggio”.
E’ facilmente rintracciabile su Internet il video dell’intervento dell’AD e verificare direttamente che non c’è stata alcuna strumentalizzazione.
Per onestà intellettuale, poiché ne volevo scrivere, mi sono sorbito i 49 minuti di discorso – non molto eccitanti per la verità – all’interno dei quali è contenuta la preziosa perla di saggezza.
Ancora più che la “terrificante” tecnica di cambiamento proposta dell’illustre AD, mi hanno fatto rabbrividire gli applausi che gli studenti e i professori hanno tributato all’ospite.
Se questi sono i modelli proposti dalle Business School, comincio a capire una delle cause di molti problemi che affliggono il mondo delle aziende.
Le scuole ufficiali propongono modelli obsoleti e basati su valori e parametri da prima rivoluzione industriale e che non mi sento di condividere.
Il grande manager avrebbe dovuto intitolare il suo intervento: Shark attack!
Ne consegue che non tutti i modelli sono da imitare; da alcuni, è più salutare, stare ben lontani.
Capitani d’industria, superiori, insegnanti e genitori, devono sapere che collaboratori, giovani e bambini accettano le decisioni che sentono giuste. Collaboratori e giovani tuttavia tendono a elevare il valore dell’uguaglianza a misura di giustizia: ma un capo dovrebbe comportarsi seguendo la massima classica del suum cuique: ossia “ a ciascuno il suo”. La giustizia come virtù presuppone capacità di giudizio morale, coraggio, incorruttibilità e stabilità e non è una condizione che si possa garantire attraverso provvedimenti istituzionali (o procedure, aggiungo io): deriva da persone che possiedono la forza e il coraggio di mettere in pratica questo valore grazie a un modo di agire intrepido. Decidere in modo giusto e saper portare avanti un tale atteggiamento in modo degno qualifica chi occupa una posizione dirigenziale – chi vi riesce risponde così alle più alte aspettative che possono essere riposte nella persona di un leader: in nessun’altra circostanza essi vengono chiamati così tanto in causa come “persone”. Il rigore che talvolta accompagna la giustizia viene mitigato dalla bontà che ogni superiore dovrebbe irradiare, poiché la giustizia senza bontà o misericordia, per usare un termine del cristianesimo, può perdere quell’umanità che invece dovrebbe creare.
(Bernhard Bueb – opera citata)
Essere un modello è un privilegio e una responsabilità e il capo dovrebbe esserne consapevole e onorato e rispondervi in modo adeguato.
Non dobbiamo avere paura dell’ombra, della nostra stessa ombra o di quella di altri, o del buio che caratterizza un mondo così incerto come l’attuale.
Non abbiate mai paura dell’ombra.
E’ lì a significare che vicino, da qualche parte, c’è la luce che illumina. (Ruth E. Renkel)
Diffondere quella luce è il compito del capo.
Buona settimana
Massimo