Team Building e la filosofia di Ponzio Pilato. The Reality Gap 3.
Una delle attività molto di moda è il team building.
La precisione dei termini aiuta la chiarezza di pensiero ed evita equivoci, con questi obiettivi in mente, ricerco su Wikipedia la definizione di team building:
Il team building, nell’ambito delle risorse umane, costituisce un insieme di attività formative, (ludiche, esperienziali o di benessere), il cui scopo è la formazione di un gruppo di persone.
Contesti di applicazione
Molte aziende sfruttano le potenzialità date da questa attività quando si trovano di fronte ad un gruppo costituito da poco o quando il gruppo è in crisi o ancora quando è sotto stress o semplicemente non ottiene i risultati attesi. Il team building ha quindi preso in prestito e rielaborato alcune attività ludiche sportive, teatrali, musicali e così via, divenendo sempre più un contenitore flessibile e articolato. Rimane la necessità di saper distinguere il team building “formativo” e costruttivo da quello semplicemente “ludico”. Nel primo caso il fine è la consapevolezza nei partecipanti dell’avvenuto cambiamento, nel secondo caso il fine è l’esperienza in se.
Obiettivi
Molti sono gli obiettivi che il team building può perseguire come ad esempio: far conoscere le persone in modo approfondito; stimolare ed aumentare la collaborazione; costruire e potenziare relazioni interpersonali; creare un clima di fiducia e di stima tra gli appartenenti allo stesso gruppo; sviluppare creatività, ascolto, empatia, motivazione, coesione, integrazione, leadership; lavorare per obiettivi; conoscere e riconoscersi nella mission e nei valori aziendali; valutare ed apprezzare attitudini, competenze, potenzialità dei singoli individui.
(…) Il fine ultimo deve sempre essere quello di far sentire il gruppo una vera squadra.
Poiché un intervento una tantum è fine a sé stesso; per poter avere dei ritorni positivi in termini di performance, sono necessari più interventi annuali in successivi incontri.
Tantissime sono le attività di team building: giochi di ruolo, squadre in competizione tra loro, orienteering, sfide in cucina o al bar, indoor, outdoor, giochi di costruzione, arrampicate, giornata in barca a vela, partite di vari sport, caccia al tesoro, canoa, etc., etc., chi più ne ha, più ne metta.
La fantasia trova terreno facile, “coach” attrezzati e manager pronti.
La domanda, tuttavia, è insidiosa…
Funzionano? Trasformano gruppi di persone in squadre?
Se lo chiediamo ai “formatori” la risposta non può che essere scontata.
Ma è davvero così?
In Correre felici verso il precipizio (post del 23/10/2016), citavo un articolo della Harvard Business Review (Perché la formazione alla leadership non funziona – e cosa fare al riguardo di M. Finnstrom e D. Schrader) sull’efficacia della formazione e sulle barriere (i “killer silenziosi”) che le aziende devono affrontare e che impediscono di cogliere i frutti di training ben progettati: mancanza di chiarezza sulla strategia e sui valori, che determina spesso priorità contrastanti; alti dirigenti che non lavorano in team e non si impegnano a perseguire una nuova direzione strategica o ad apportare i cambiamenti necessari al proprio comportamento; stile autoritario o lassista da parte del leader, che impedisce un confronto sincero sui problemi; scarso coordinamento tra divisioni, funzioni o regioni, dovuto a una progettazione organizzativa inadeguata; scarsa attenzione del top management alla gestione dei talenti; paura dei dipendenti, che non osano denunciare al gruppo dirigente gli ostacoli che minano l’efficacia dell’organizzazione.
Proseguendo nell’analisi suggerivo che, ovviamente, la soluzione non può essere non sviluppare le competenze ed eliminare i programmi di formazione, ma vuol dire creare le condizioni e il contesto perché possano produrre il massimo risultato (rimando il lettore al post indicato per una lettura completa).
Per le attività di team building valgono le stesse considerazioni su esposte, con qualche precisazione.
Come ben sa chi abbia lavorato in un team affiatato e di successo (sia in ambito sportivo che professionale), la costruzione di una squadra non può essere un evento demandato a un’attività di team building sporadica e che non trova poi un seguito nell’attività quotidiana.
Una buona squadra si costruisce allenandosi insieme, giocando le partite e condividendo vittorie e sconfitte, costruendo riti, schemi mentali/di gioco comuni e condividendo gli stati d’animo.
Una squadra si forma negli spogliatoi e sul campo, giocando, faticando, soffrendo e divertendosi “insieme”, non una volta all’anno, ma più volte, con continuità. Solo una frequentazione assidua consente il “gioco di squadra”.
Un’attività di team building fine a se stessa è da ricordare, magari con piacere e un sorriso complice, davanti alla macchinetta del caffè, ma è difficile che possa diventare un modo di pensare e di agire comune, come dimostrano poi i risultati che, a distanza di qualche tempo, si osservano nei gruppi che hanno fatto “team building”.
Gruppi composti di persone che, una volta rientrati nell’ambiente di lavoro, proseguono, facendo le stesse cose e nello stesso modo, come prima e più di prima, della tanto attesa attività di “team building”. Il momento “ludico o formativo” è relegato a ricordi di momenti spensierati e divertenti, ben lontani dalla realtà della giornata lavorativa condotta in condizioni a volte stressanti e con il colleghi di “squadra” impegnati a risolvere grane e problemi continui (magari sotto un “capo” vecchio stile che non conosce il significato operativo della parola “team”).
Sorrido pensando a quel manager convinto che, motivazione e impegno si potessero costruire organizzando una gita “sociale” annuale con i dipendenti con tanto di pranzo o cena, ignorando che il proprio modo di comportarsi e di interagire con le persone tutti gli altri giorni dell’anno, esprimeva nei fatti proprio il contrario dei valori e dei comportamenti necessari per costruire una squadra.
E’ un’altra prova di un pensiero lontano dalla realtà dei fatti (il famoso “gap”).
Come sempre non è lo strumento (team building) il problema, ma l’ambiente di contorno e quello che succede dopo l’attività, una volta rientrati nel quotidiano.
Ci sono tanti giocatori che arrivano in serie A e come unico obiettivo hanno il contratto. La passione un tempo l’hanno conosciuta, ma poi l’avidità e il desiderio di gloria hanno avuto la meglio. A questi giocatori interessa solo il benessere, inutile sperare di ottenere grandi risultati da loro. Sta tutta qui la differenza fra loro e i giocatori che fanno una carriera di grande livello e riescono a stare per tanti anni al vertice. La motivazione di questi ultimi è forte. Sono giocatori veri. Affidabili, responsabili, rispettosi. Gli altri sono soltanto dei grandi talenti, troppo fragili per essere affidabili.
(Cesare Prandelli – Il calcio fa bene)
Un bravo allenatore sa che un ragazzo cresce con i piccoli passi, e costruisce il suo futuro con il duro lavoro quotidiano. A divorare la torta subito viene l’indigestione, e non sfama. Se un tecnico lavora sull’immediato, se lavora solo per se stesso rischia di perdere tanti ragazzi per strada. Io sono al servizio dei miei ragazzi, li aiuto a vincere la timidezza davanti al pallone, a giudicarsi con umiltà. A pensare che il gioco appartiene alla squadra, ma che a sua volta la squadra è composta da singole entità diverse tra loro, e lei funziona solo se tutti i suoi componenti lavorano insieme per un progetto comune, al di là del risultato. Un bravo allenatore è come un fabbro, forgia la tecnica e il carattere.
(Cesare Prandelli – op.cit)
Una grande squadra è fatta soprattutto di grandi uomini.
Determinante è l’immagine che da di sé. Positiva, che duri nel tempo. L’apparenza da sola non basta, perché è effimera e sparisce. Le regole sono le fondamenta della squadra e servono a responsabilizzare i giocatori.
Una squadra deve essere consapevole, modesta, rispettosa.
(Cesare Prandelli – op.cit.)
Ecco cos’è una grande squadra, non solo nella giornata di “team building”, ma ogni giorno durante gli allenamenti, nello spogliatoio, durante le partite giocate insieme con il suo allenatore.
E proprio dall’allenatore dobbiamo partire per costruire una squadra.
Un allenatore è un maestro. Spiega tecniche, regala segreti, insegna quei comportamenti che regolano i rapporti non solo sul campo ma anche nella vita. Nello scambio fra lui e il calciatore, è quest’ultimo che deve brillare. Il protagonista del palcoscenico, il primo attore.
L’allenatore è il regista e lavora dietro le quinte.
Dopo una sconfitta la prima cosa da fare è guardarsi negli occhi e analizzare la gara insieme. Anche se, quando la squadra perde, un allenatore rimane solo.
(…) Penso. Rifletto. Studio.
(Cesare Prandelli – op.cit.)
Alcuni manager non amano né i doveri né le fatiche del mestiere di allenatore e nell’illusione di trovare la ricetta veloce e perfetta, si rifanno alla filosofia di Ponzio Pilato:
Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto cresceva sempre più, presa dell’acqua, si lavò le mani davanti alla folla: “Non sono responsabile, disse, di questo sangue; vedetevela voi!” (dal Vangelo secondo Matteo)
Credere che un’attività di “team building”, possa sostituire il lavoro costante, impegnativo dell’allenatore e basti a costruire una squadra, è fantasia. Qualcuno, forse, pensando di trovare una via facile e veloce, fa come Ponzio Pilato: si lava mani e coscienza nella convinzione di avere fatto tutto quello che serviva per costruire la squadra.
La realtà naturalmente è ben diversa.
Un’attività di team building non può generare benefici duraturi se mancano persone, impegno, rispetto, disciplina, tecniche, valori condivisi e obiettivi comuni e prima di tutto se la squadra non impara a lavorare insieme.
E l’allenatore (manager) ci deve dedicare il tempo necessario.
Con questi elementi un buon allenatore sarà sempre vincente su chi segue il metodo di Ponzio Pilato.
Giorno per giorno, giocatori …
squadra …
allenatore.
Design a better world …
Buona settimana
Massimo