La vita sceglie la musica, noi scegliamo come ballarla. (John Galsworthy)
Rispetto e ammirazione per chi fa impresa oggi in Italia: un paese oppresso fiscalmente, con una burocrazia spietatamente inefficiente e infrastrutture carenti.
Fare oggi impresa, qui, è davvero un’impresa che merita rispetto, ammirazione e considerazione. Richiede coraggio e una forte determinazione.
Non è una ‘captatio benevolentiae’ ma una constatazione e un riconoscimento.
Tuttavia non possiamo non osservare e mettere in discussione con occhio critico alcune caratteristiche di un sistema che riesce con fatica a evolvere.
In un post molto letto, scritto nel pieno della prima ondata di questa maledetta pandemia (Ottimismo? Forse la parola è un’altra. – 20 marzo 2020) scrivevo:
Bisogna essere ottimisti?
Quando è necessario rimanere positivi e trasmettere positività?
Quando tutto va bene è molto facile.
Quando le cose girano nel verso giusto possiamo essere contenti ma è anche facile essere ottimisti.
E’ quando invece le cose si fanno difficili, impegnative, che è necessario assumere un atteggiamento positivo che non vuol dire non essere consapevoli, non vuol dire ignorare i problemi altrimenti sarebbe incoscienza, irresponsabilità o peggio ancora stupidità.
Non vuol dire nemmeno fingere.
Vuol dire guardare avanti…
Sostenevo che invece di un facile ottimismo dobbiamo avere fiducia, ma questo non significa ignorare gli evidenti ostacoli e problemi che abbiamo davanti.
Tralascio qualunque descrizione generale sul sistema Italia, la politica e altri aspetti di un paese che arranca e nel quale la pandemia ha fatto emergere tutte le criticità ignorate per anni, per concentrarmi invece sul sistema delle imprese, vero motore di uno sviluppo e di una crescita per il futuro.
Ho deciso che, in questo post, non sarò saggio:
La saggezza consiste semplicemente nel non insegnare a Dio come si debbano fare le cose. (Nicolas Gomez Davila)
Tenterò, non di insegnare, ma di suggerire qualche osservazione e puntualizzare qualche criticità a ‘Dio’: imprenditori e manager, con l’intento di capire e riflettere e muovere alla ricerca di nuove strade.
La tesi che intendo sostenere è che il mondo delle imprese – mi sia consentita la generalizzazione anche se, per onestà intellettuale, bisogna tener conto che ci sono delle rilevanti eccezioni – soffre di una serie di ‘patologie’ che se non curate possono renderne molto difficile il ritorno a una condizione di salute. Patologie che i meccanismi perversi del sistema paese (burocrazia, tasse, alto costo del lavoro, scarsa mobilità, politica inetta e incapace, giustizia lentissima, mancanza di infrastrutture, ecc. ecc.) rendono solo più gravi.
Primo tassello. Il PIL…
L’evidenza che la crisi parte da lontano:
Dall’inizio del 2000 fino al 2018 la ricchezza nel nostro Paese (Pil) è cresciuta mediamente dello 0,2 per cento ogni anno. Niente a che vedere con quanto successo nei due ventenni precedenti. Se tra gli anni ’80 e ’90 la crescita è stata del 2 per cento, tra il 1960 e la fine degli anni ‘70 l’aumento del Pil è stato addirittura del 4,8 per cento medio annuo. (Dal 2000 la crescita è zero – 26 gennaio 2019 – cgiamestre.com)
La pandemia e il crollo del PIL subito nel 2020 si collocano in questo orizzonte. Ricordo bene che agli inizi del 2020 si parlava di un altro anno di crescita asfittica. L’economia non decolla.
Secondo tassello. Il “Paron”…
Un amico, giovane e brillante ingegnere, mi scrive un commento che riporto, con il suo permesso, integralmente:
“Perché molto spesso le aziende vivono per anni la vita del funambolo? Perché continuano a “camminare” a decine di metri di altezza con il rischio continuo di cadere e sappiamo benissimo tutti che quando si cade da certe altezze risulta poi difficile se non impossibile rialzarsi.
Zero innovazione, assenza di comunicazione, approccio manageriale fermo al “Paron (padrone in Italiano) che ti dice cosa fare altrimenti “l’azienda senza di lui non può andare avanti”, continuo cambio di personale e sopratutto dipendenti visti come “numeri” e non come Uomini o Donne che siano, da cui spremere tutto ciò di buono che c’è dentro ognuno di loro.
Come diceva il grande Enzo Ferrari, le aziende prima di tutto sono fatte dagli uomini che ci lavorano, poi dai macchinari ed infine dai muri e quindi mi chiedo… perché molti preferiscono lavorare sempre al limite con il rischio di cadere da un momento all’altro?
Perché non fermarsi per un attimo e scegliere le persone giuste che ti aiutano a fare le scelte migliori per il tuo luogo di lavoro?
Tutto ciò permette di spostare tutti assieme la famosa “fune” posta precedentemente a decine di metri di altezza a pochi centimetri da terra, generando un rischio talmente basso che in caso di caduta, non sarà di certo un problema rialzarsi. “ (M.)
Terzo tassello. La ‘Lean’…
La ‘Lean’, un metodo importato dal Giappone (passando per gli Stati Uniti) che avrebbe dovuto essere una rivoluzione e che invece ha fallito o che, come sostiene qualcun altro, non è mai partita. Diventata una delle tante mode che popolano la mitologia del business è diventata una serie di riti che alcuni praticano senza produrre risultati veramente rilevanti.
Avrebbe dovuto/potuto rappresentare una rivoluzione nel modo di gestire le aziende, di migliorare i processi, è stata invece, nel migliore dei casi, ‘normalizzata’, come le procedure e le norme ISO; cose che devi avere ma che tutto sommato non devono modificare più di tanto le pratiche di management tradizionali. Non si deve disturbare il manovratore con inutili perdite di tempo o questioni irrilevanti.
L’importanza relativa e la neutralizzazione emerge con chiarezza (per chi vuole vedere) da varie evidenze. In molti casi, ad esempio, le attività di miglioramento sono condotte da giovani ingegneri, molto motivati e capaci, ma senza esperienza, lasciati a combattere con sistemi e procedure immodificabili. Del resto se fosse davvero un’iniziativa strategica non meriterebbe un altro impegno?
Inoltre è ancora vista, purtroppo, solo come una ‘cosa della fabbrica’ e rari sono i casi di una sua estensione ad altre funzioni: vendite, marketing, progettazione, contabilità, IT; come se queste non avessero spazi o ragioni per migliorare. Per non parlare dei settori dove non se ne vede traccia: il mondo dei servizi o della sanità, tanto per fare due soli esempi.
Qualche piccolo miglioramento locale senza dubbio, ma nessun cambiamento rilevante a livello di gestione aziendale. Rari sono i casi di successo e unici quelli di un’estensione a tutta l’azienda.
Bob Emiliani ha tratteggiato molto bene in una serie di libri sul Management le ragioni di una crisi che il mondo della lean preferisce ignorare, dilettandosi nella promozione di tool, kata e nella creazione di aggettivi di varia natura (lean six sigma, agile, ecc.). Ne ho scritto anch’io in diverse occasioni.
Non si è capito – oppure lo si è capito ma si preferisce ignorarlo – che la ‘lean’ (che nel suo significato originario ha le radici in kaizen) è un diverso sistema di management e infatti, i primi a disattenderlo sono proprio i manager o gli imprenditori con buona pace dei ‘change agent’ e delle leggende sul cambiamento.
Quarto tassello. L’innovazione che non c’è…
Dopo la sbornia da Industry 4.0 che ha prodotto qualche digitalizzazione ma che non ha cambiato le modalità di gestione aziendale, tutto è ritornato quasi come prima solo con qualche tablet e qualche RFID in più. Lo dimostrano i bassi livelli di produttività delle aziende italiane e l’appiattimento della crescita del PIL, sintomi di una difficoltà più generale.
Quinto tassello. Tutti parlano di ‘formazione’, ma dov’è?
Facilmente si spendono milioni di euro per acquistare macchine, tecnologie, software, senza battere ciglio, ma la formazione continua a essere vista come un costo, deve essere gratuita oppure, alla peggio, finanziata.
Ignari che un’azienda è un sistema socio-tecnico, si continua a investire in automazioni (a volte solo presunte) e solo una piccola frazione di denaro è dedicata invece allo sviluppo delle persone che poi devono utilizzare quelle tecnologie.
La pandemia, con lo ‘smart working’, i ‘webinar’ e la formazione online, ha solo peggiorato una situazione già difficile. Un pò come con la DAD per i ragazzi, questi nuovi strumenti sono stati visti come l’ultima frontiera del lavoro di domani e della formazione e come con la DAD, prima o poi, ne comprenderemo limiti e criticità. La formazione, da tutti citata ma così trascurata…
Come creiamo partecipazione, coinvolgimento e impegno? Quali saranno le competenze di domani? E visto dato che l’età lavorativa si allunga, come evitiamo che i nostri collaboratori invecchino (ovviamente non biologicamente cosa non possibile, ma dal punto di vista delle competenze)?
Sesto tassello. Marketing e Vendite
Le aziende non riescono a creare un marketing moderno e continuano a pensare che consista nel fare il catalogo o le brochure. Ogni tanto il marketing si manifesta in qualche uscita sui ‘social’, timido tentativo di fare qualcosa di nuovo, almeno per le aziende più evolute, ma molte organizzazione hanno un’idea approssimativa (o non ce l’hanno proprio) di cosa sia fare marketing in modo nuovo e originale cioè non scopiazzando pratiche mediocri spacciate come ‘strategiche’ o miracolose.
Non parliamo poi delle vendite, ne ho scritto in Sales Reboot (15 febbraio 2021) a cui rimando il lettore interessato.
Settimo tassello. Le nuove generazioni di imprenditori.
Arriva la nuova generazione di imprenditori: in alcuni casi sono un pò come i politici neoeletti. Sembra vogliano fare la rivoluzione ma non appena entrano in Parlamento vengono cooptati dal sistema, iniziano a godere le comodità e i privilegi e perdono ogni spinta all’innovazione adagiandosi nella mortale tranquillità dello status quo. Ogni tanto provano qualche nuova ‘moda’ di business, fanno un pò di ‘coaching’ per essere à la page e poi via ‘business as usual’. La ruota riprende a girare con le modalità di sempre…
Ottavo tassello. La domanda…
Una domanda mi angustia: perché in tutte le foto che vengono pubblicate di team che fanno ‘innovazione’, con tanti bei post-it colorati, compaiono solo giovani? Cos’è? Un modo per farli divertire senza fargli toccare niente di importante? Quanti manager o imprenditori partecipano attivamente a quelle sessioni? E quanta innovazione vera viene prodotta? Già perché quello che manca è proprio l’innovazione non solo di prodotto, ma organizzativa e manageriale.
Ci sarebbe molto altro da dire, ma tant’è.
Abbiamo un serio e grave deficit culturale che dobbiamo superare se vogliamo affrontare il futuro con fiducia e lungimiranza. La freccia del tempo punta inesorabilmente in avanti e se non vogliamo languire nel piccolo cabotaggio o estinguerci dobbiamo agire subito.
La verità è che c’è molto di vecchio, di obsoleto, di riciclato, di rimescolato, un formidabile e gigantesco ‘make-up’ che prende cose antiche e con un’operazione di cosmesi tenta di passarlo per nuovo, ma sotto una leggera e superficiale mano di vernice la ruggine continua a corrodere.
Quindi? Tutto inutile?
No.
Dobbiamo smettere di parlare di cambiamento e iniziare a parlare invece di trasformazione. Dobbiamo superare la cronica mancanza di fiducia che esiste ancora in molte organizzazioni e ridare valore alle persone, all’intelligenza e alla creatività.
Dobbiamo costruire competenze nuove sia per i nostri collaboratori ma anche per i manager e gli imprenditori.
Dobbiamo tornare a investire sul futuro, sulle persone, sui processi, su nuovi modelli culturali, su un nuovo modo di fare impresa e soprattutto su nuovi modelli di leadership.
Dobbiamo costruire il nostro futuro e per farlo ci vuole un nuovo modo di pensare.
La vita sceglie la musica, noi scegliamo come ballarla.
Scegliamo un’altra musica oppure balliamo in modo diverso.
Il futuro è oggi. Oggi è il momento per fare, perché aspettare ancora?
Il futuro non c’è ancora … o c’è ma non è uniformemente distribuito.
A noi decidere se vogliamo impegnarci per crearlo, cogliere le opportunità o se, invece, decidere di subirlo.
Nostra le responsabilità, nostra la scelta.
Tutto il resto è solo contorno.
Buona settimana
Design a better world.
Massimo