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Ai confini della realta’. The Reality Gap 4.

By 10 Settembre 2017 Aprile 20th, 2018 No Comments

Ai confini della realtà. The Reality Gap 4.8405355_l

Molti di noi ricordano la famosa serie televisiva di fantascienza “Ai confini della realtà”:

C’è una quinta dimensione oltre a quelle che l’uomo già conosce; è senza limiti come l’infinito e senza tempo come l’eternità; è la regione intermedia tra la luce e l’oscurità, tra la scienza e la superstizione, tra l’oscuro baratro dell’ignoto e le vette luminose del sapere: è la regione dell’immaginazione, una regione che potrebbe trovarsi “Ai confini della realtà”.
Così la tag-line della serie televisiva.

Ai confini della realtà” è esattamente il punto dove ci troviamo.

Un esempio di “reality gap”, differenza (gap) tra quello che i “bla-bla” raccontano (e così i vari esperti, tuttologi, consulenti, e compagnia bella) e quello che succede realmente, nella vita di tutti i giorni (post del 21/5/17 – The Reality Gap).

Siamo, a sentire certi commenti, in pieno boom: l’economia sta recuperando e la recessione è finalmente alle spalle.
Tutto bene, quindi! Possiamo stare tranquilli (esempio di perfetto Reality Gap).

Un articolo dell’Espresso del 7 agosto 2017 intitolato: I nuovi posti di lavoro? Hanno stipendi da fame. Così l’Italia è tra i paesi peggiori d’Europa, dà una visione leggermente diversa.

Quando una persona inciampa gli può andare bene e tirarsi su in fretta, magari senza troppi danni, oppure prenderla male e cominciare a zoppicare. Per quanto riguarda il lavoro, non solo la crisi ha colpito gli italiani molto più a fondo che in tante altre nazioni europee, ma anche la ripresa ha lasciato cicatrici profonde.
Persino quando i posti tornano a crescere, com’è successo negli ultimi tempi, fra lavoro e lavoro può esserci una grande differenza. Se un posto con uno stipendio decente viene sostituito da uno con un salario da fame è meglio di nulla, certo: ma nulla di cui festeggiare.
 
Questa è esattamente la situazione dell’Italia, secondo un recente studio dell’agenzia europea Eurofound, che ha analizzato in che modo cambia il lavoro negli ultimi anni – dove migliora, con salari in crescita, e dove invece diventa più povero.
 
Dalla seconda metà del 2011 a quella del 2016, hanno mostrato gli autori, in Italia ci sono state due evoluzioni fondamentali. La prima è che la maggior parte dei nuovi posti creati risultano fra i lavori più poveri: esattamente nel 20 per cento inferiore degli stipendi. Al contrario le perdite sono arrivate nei lavori da classe media e medio-alta. C’è stato insomma un generale arretramento nella qualità del lavoro, con centinaia di migliaia di persone in più ora occupate in mestieri in cui guadagnano pochissimo.

(…) Gli stessi autori dello studio scrivono infatti che “un piccolo numero di stati mostra un degrado nel modo in cui è cambiata l’occupazione dal 2013, con la maggior parte della crescita di nuovi posti che si trova nella parte più povera della distribuzione dei salari”. Fra essi Ungheria, Irlanda e Olanda, mentre proprio in Italia “dal 2011 al 2016 la crescita dell’occupazione è stata fra i lavori con paga più bassa”.

(…) Ma è proprio l’Italia a restare in una triplice – e non invidiabile – condizione: partire da una situazione peggiore degli altri, recuperare assai più lentamente e, come scopriamo ora, neppure tramite lavori pagati in maniera dignitosa.

Agli italiani, ci dice questo nuovo studio, per il momento restano quasi soltanto quelli poveri.

Così L’Espresso-Repubblica.
Spostiamo ora l’attenzione sul PIL tema che oggi entusiasma molti economisti, ministri e anche qualche imprenditore.

Il PIL o Prodotto Interno Lordo misura il valore di mercato di tutte le merci finite e di tutti i servizi prodotti nei confini di una nazione in un dato periodo di tempo.
Il PIL si è guadagnato una posizione di preminenza circa la sua capacità di esprimere o simboleggiare il benessere di una collettività nazionale e il suo livello di sviluppo o progresso (Wikipedia).
 
Mettendo i dati in prospettiva – una ricerca veloce su Internet ne dà abbondante evidenza – appare chiaro quanto l’Italia sia rimasta al palo, cito solo come esempio un titolo de ilsole24ore del 4 marzo 2016: Perché dal 2008 il Pil dell’Italia ha perso il 10%, l’Eurozona è ferma e gli Usa sono cresciuti del 10%.
Insomma tutte queste celebrazioni e note sulla ripresa mi sembrano molto “elettorali”.

In sintesi, siamo tutti più poveri, la tassazione è altissima (sia per le persone sia per le imprese), i servizi sono scadenti (scioperi vari, malasanità, etc.), ci sentiamo meno sicuri e protetti (la criminalità in aumento?), i terremotati aspettano (tutti fanno a gara per promettere una ricostruzione che non arriva) e ci rallegriamo quando il PIL cresce un pochino di più delle stime…

Ma tant’è!
Siamo il Bel Paese!
In estrema sintesi, siamo in un sistema incriccato e incapace di evolvere.
Stiamo preparando un bel futuro per i nostri figli, che nel frattempo preferiscono cercare lavoro ed esperienze di valore all’estero.
Dobbiamo rassegnarci?
Affatto!
Dobbiamo trovare nuove energie, stimoli e motivazioni per agire!

Il 18 marzo 1968, poco prima di essere ucciso in un attentato (6 giugno 1968), Robert Kennedy tenne un discorso divenuto molto famoso e spesso citato, considerato uno tra i migliori discorsi della storia recente.
Ne riporto il testo integrale.

Università del Kansas – 18 marzo 1968
Con troppa insistenza e troppo a lungo, sembra che abbiamo rinunciato all’eccellenza personale e ai valori della comunità, in favore del mero accumulo di beni materiali.
Il nostro PIL ha superato 800 miliardi di dollari l’anno, ma quel PIL – se giudichiamo gli USA in base ad esso – quel PIL comprende l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le autostrade dalle carneficine. Comprende serrature speciali per le nostre porte e prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende la distruzione delle sequoie e la scomparsa delle nostre bellezze naturali nell’espansione urbanistica incontrollata. Comprende il napalm e le testate nucleari e le auto blindate della polizia per fronteggiare le rivolte urbane. Comprende il fucile di Whitman e il coltello di Speck (criminali all’epoca al centro di fatti di cronaca), e i programmi televisivi che esaltano la violenza al fine di vendere giocattoli ai nostri bambini. Eppure il PIL non tiene conto della salute dei nostri ragazzi, la qualità della loro educazione e l’allegria dei loro giochi. Non include la bellezza delle nostre poesie e la solidità dei nostri matrimoni, l’acume dei nostri dibattiti politici o l’integrità dei nostri funzionari pubblici. Non misura né il nostro ingegno né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione per la nostra nazione.
In poche parole, misura tutto, eccetto quello che rende la vita degna di essere vissuta.
Ci dice tutto sull’America, eccetto il motivo per cui siamo orgogliosi di essere americani.
Robert Kennedy
La cieca ossessione-compulsione alla misurazione, quantificazione e ricerca del numero a tutti i costi rischiano di renderci ciechi all’evidenza: non tutto ciò che può essere contato conta e non tutto ciò che conta può essere contato, si dice fosse scritto su un cartello appeso nell’ufficio di Einstein a Princeton.
Esiste – almeno per il momento e per fortuna – ancora una dimensione qualitativa che i numeri non riescono a cogliere.

Non riusciamo ancora a misurare in modo attendibile e affidabile alcuni aspetti assolutamente rilevanti: le capacità di leadership di un manager o imprenditore, la qualità di un posto di lavoro, la motivazione di una persona, la creatività e l’ingegno, la sensibilità e così via.
Di solito si guardano i risultati, i famosi “dati”: profitti, quote di mercato, efficienza, produttività, etc. etc., ma ci sono parecchi esempi di aziende apparentemente “performanti” (dati positivi) che hanno un clima e un ambiente di lavoro intollerabili, oppure peggio, che sono fallite.
Allora questi numeri, per i quali soffriamo così tanto, che realtà rappresentano?
Interpretiamo il mondo che ci circonda (realtà) servendoci di modelli, i dati che raccogliamo rispecchiano una certa configurazione delle cose, un modello, per cui ipotizziamo che se misuriamo quel dato avremo un’indicazione chiara ed esplicativa.
E se il modello non fosse più adeguato?

Teniamone conto quando vogliamo misurare tutto.

Alla fine non possiamo ancora misurare cosa rende la vita degna di essere vissuta o i motivi che ci rendono orgogliosi di lavorare per una certa azienda o di vivere in un certo paese.
Dobbiamo convivere con il fatto che certe scelte, decisioni e anche direzioni devono seguire non il “dato”, ma il cuore e alla fine è questo che ci rende così umani. E in quell’emozione, quella sensibilità sta tutta la capacità di creare grandi aziende e grandi nazioni ottenendo risultati che vanno oltre le misurazioni aride dell’economista.

Tutti possiamo riconoscere una persona felice, o motivata, o impegnata, o attenta, non abbiamo bisogno di un calibro. Se la vediamo, la riconosciamo, “capiamo” e “sentiamo”!
Il numero del trimestre non te lo dirà mai.

Design a better world …
Buona settimana
Massimo

 

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