Teologia della Lean e nuovi guru.Scrivendo sulla Lean non posso dimenticare il motto di Gildor: non t’impiacciare degli affari degli Stregoni, perché sono astuti e suscettibili (Il signore degli anelli. – J.R.R.Tolkien), ma correrò ugualmente il rischio di far arrabbiare qualche Stregone.
Non ho scritto mai molto sul tema, qualche accenno qua e là e tre post specifici, che hanno avuto un discreto numero di visualizzazioni:
Lean, Toyota e la ricerca del Sacro Graal … (7 luglio 2014);
Tempietti e vecchi merletti. (12 aprile 2015);
Lean + “something” … (6 marzo 2016).
Fin dal 1996 con la prima edizione di Lean Thinking di Womack e Jones, parlare o fare “la lean” è diventato di moda in un crescendo che ha portato, nella ricerca di novità a tutti i costi, persino ad accostamenti molto singolari tra la parola lean e altri aggettivi o nomi, uno tra gli ultimi il terrificante “lean six sigma” (si veda il già citato post lean+something).
Peccato che a questa creatività nella pubblicità non abbia corrisposto un altrettanto rilevante successo nell’implementazione pratica all’interno delle aziende. E questo è proprio uno di quei temi sui quali gli Stregoni di più sopra non parlano.
I famosi cinque principi proposti da Womack e Jones, Value, Value Stream, Flow, Pull, Perfection, così seducenti nelle promesse neanche tanto nascoste di grandi miglioramenti, hanno attirato l’interesse di un management alla ricerca di soluzioni nuove che potessero generare recuperi di efficienza, riduzione dei costi e semplificazioni delle Supply Chain, senza tuttavia mettere in discussione le regole di gestione delle aziende (cioè di loro stessi).
E così la Lean associata al famoso Toyota Production System è diventata la ricetta che molte organizzazioni hanno tentato di applicare, con vari gradi di successo, al loro interno nel tentativo di rendere efficienti le proprie Operations, dimenticando che il termine Production come inteso in Toyota, si estende a tutte le attività aziendali (anche e prima di tutto alla Direzione) che dovrebbero progettare, supportare e vendere i prodotti creati dalla parte produttiva.
Insomma, nella maggioranza dei casi, ne hanno fatto un insieme di tool da applicare alla parte produttiva con l’obiettivo di ridurre inventari, lead time e costi passando sopra la testa delle persone (chi crea valore, nella terminologia lean) che invece ne avrebbero dovuto essere i protagonisti.
Molte società di consulenza, già nei primi anni 2000, proponevano “strumenti” da applicare in fabbrica, e suggerivano la costituzione dei famosi “agenti del cambiamento” (change agent) creando così tutta una serie di nuove figure sulle quali ricadeva la responsabilità di condurre le attività di miglioramento: Kaizen Promotion Officer, Lean Manager, Lean Process Improvement e così via.
C’è stata poi un’apoteosi di A3, tabelloni vari, visual management, grafici e tabelle, angoli simpatici con diagrammi disegnati al computer (molti dei quali illeggibili), implementazioni varie di kanban e aziende produttrici di software per gestirli, che avrebbero dovuto, secondo i “guru”, interessare e coinvolgere operai e middle manager.
A un certo punto i “guru”, che nel frattempo avevano capito che tutti questi strumenti non riuscivano a creare processi sostenibili, hanno realizzato, con vari gradi di comprensione e con un processo che appare come la conversione di Paolo sulla via di Damasco, di aver dimenticato le persone per strada.
Così, hanno tentato di recuperare il terreno perduto.
E’ fin dal 2007 che sostengo quanto le persone siano il centro del processo di miglioramento e trovo piena sintonia con l’idea espressa da Bob Emiliani della distinzione tra Fake Lean (solo gli strumenti) e Real Lean (strumenti + persone), ma ad altri ci sono voluti parecchi anni per capirlo.
A distanza di 21 anni dal libro di Womack e Jones, possiamo dire che la Lean ha mantenuto le sue promesse di rendere le aziende più competitive, più efficienti e più innovative?
Una prima parziale risposta deriva proprio da quel “lean+something”.
Con un’idea tipica del marketing di prodotti maturi e nel tentativo di rilanciare alcune idee un po’ logorate dal tempo e ingrigite dai piccoli risultati prodotti nonostante le grandi aspettative, alcuni “guru” hanno pensato di collegare tra loro concetti diversi, sperando così di dargli una patina di novità. Operazione che ha avuto un certo successo e che piace a molti manager: unire la lean e il successo di Toyota con la tecnica resa famosa da General Electric, Six Sigma (del resto Jack Welch è stato o no riconosciuto come uno dei più grandi manager del secolo?). Unire due tecniche così promettenti nelle premesse non può che essere un’azione di successo (sig!).
E allora cosa c’è di sbagliato nell’unire Lean e Six Sigma?
Primo: in tanti anni di attività in varie aziende devo ancora vedere risultati di rilievo prodotti dal Six Sigma, rispetto alla quale non ho obiezioni particolari trattandosi di una tecnica di analisi, ma che mi sembra una complicazione inutile rispetto a processi che si potrebbero migliorare velocemente e in modo più semplice (il ciclo DMAIC non è uguale al ciclo di Deming PDCA, che tra l’altro fa la stessa cosa con un passaggio in meno?).
Secondo: l’idea che il miglioramento possa essere fatto solo da Green o Black Belt è esattamente l’opposto di un modo di pensare che punta a coinvolgere tutte le persone.
L’unico scopo della cintura dovrebbe essere quello di tenere su i pantaloni…
Pochissimi se non rari, sono i casi di aziende che hanno coinvolto tutte le funzioni aziendali nei processi di miglioramento, vendite, marketing, contabilità, logistica e in molti casi anche la progettazione; funzioni che sono slegate dai processi di miglioramento e seguono logiche tradizionali, cioè la Lean è vista come un’attività tipica della produzione, come se queste funzioni non potessero migliorare o non siano interessate all’applicazione del metodo scientifico per il miglioramento (PDCA), fatto in sè singolare.
Quello che possiamo osservare sono dei miglioramenti, nel migliore dei casi, locali, ma che non riescono a tradursi in una maggiore competitività a livello aziendale, essendo circoscritti alla fabbrica o ad alcuni reparti di essa.
Recentemente un imprenditore che voleva fare attività nella sua organizzazione mi ha detto: “vorrei fare qualcosa, basta che non sia la lean”, evidentemente, non sono il solo a pensare che ci sia qualcosa che non va.
Molti programmi Lean, soprattutto in alcune società multinazionali, si sono tradotte in licenziamenti e riduzione del personale, ottenendo così il rifiuto invece del coinvolgimento e dimenticando totalmente il principio del rispetto per le persone.
Se vorreste portare aventi con successo un progetto strategico per la vostra azienda, che potrebbe fare la differenza in termini di competitività e vera efficienza, e che richiede un importante investimento, non dedichereste a esso le migliori risorse, le più esperte e competenti?
Perché, allora, ai progetti lean sono assegnati neo-laureati senza esperienza, bravissimi e ammirevoli per l’impegno che ci mettono, ma destinati a soffrire quando devono interagire con “vecchi marpioni” e impotenti ad abbattere muri e “orticelli”, lasciati soli a lottare senza nessun vero supporto?
Potrei continuare ancora, elencando altri casi e ragioni, ma per citare Moliere, quasi tutti gli uomini muoiono dei loro rimedi, non delle loro malattie.
E quando la lean è vista come un rimedio, da applicare ma senza troppa convinzione, è destinata a fallire o, nella migliore delle ipotesi, a non generare i risultati che hanno reso famose altre aziende.
Due ultime osservazioni.
La prima è legata alla capacità che hanno certi “guru” di esprimersi come Yoda, con frasi a effetto e senza spiegare. Essi dimenticano che per poterlo fare bisognerebbe avere lo status e il carisma del piccolo/grande Jedi … un po’ d’umiltà non guasterebbe.
In ultimo, pur avendo grandissima ammirazione per l’azienda e per il sistema di management e la cultura che è riuscita a creare in tanti anni di applicazione, non credo che il successo derivi dal copiare Toyota, obiettivo che è semplicemente impossibile e inutile da perseguire.
Toyota è una grande azienda, innovativa sotto molti aspetti, fonte d’ispirazione e riflessione, ma copiare i suoi sistemi o i suoi strumenti non deve essere l’ambizione di chi vuole invece creare un’azienda con una sua cultura, con le sue persone, il suo mercato e i suoi prodotti.
Ispirazione, riflessione, sì, copia e incolla no!
Dopo 21 anni abbiamo bisogno di qualcosa di nuovo e di originale.
La fondamentale lezione che i grandi uomini (Deming, Ohno, Sakichi Toyoda, Kiichiro Toyoda, Sohichiro Honda e tanti altri) che hanno avuto l’idea di applicare il metodo scientifico al miglioramento dei processi aziendali, ci hanno insegnato, è proprio questa: continuare ad apprendere, continuare a provare, continuare a migliorare, cioè è il contrario di quello che la Lean è oggi: una chiesa con i suoi dogmi, i suoi riti e i suoi sacerdoti.
Dobbiamo provare a essere eretici!
Dobbiamo osare e cambiare continuamente per migliorare!
Taiichi Ohno, 39 anni fa dalla prima edizione del suo libro in giapponese (1978) e 29 anni dalla prima edizione in inglese (1988):
Naturalmente, ciò che è importante non è il sistema ma la creatività degli esseri umani che selezionano e interpretano le informazioni. Fortunatamente, il sistema di produzione Toyota è ancora in fase di perfezionamento. I miglioramenti sono realizzati ogni giorno grazie all’ampio numero di suggerimenti ricevuti dai suoi dipendenti.
La mia mente ha la tendenza a cristallizzarsi e così io rinnovo la mia determinazione ogni giorno e mi costringo a pensare in modo creativo.
C’è sempre molto da fare nel campo della produzione …
(Taiichi Ohno – Toyota Production System)
Se la lean non vuole cristallizzarsi … deve evolvere!
Se il management non vuole cristallizzarsi … deve evolvere!
“C’è sempre molto da fare” per cambiare…
Buon lavoro.
Design a better world …
Buona settimana
Massimo
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