La Rana e il Bambù 3. Scavatori di trincee…Ho ricevuto recentemente un contributo da un amico/lettore, che chiamerò semplicemente “F.” e che ricopre un ruolo di responsabilità in un’importante azienda italiana. F. ha colto l’invito di condividere una sua riflessione.Riporto con piacere un ampio stralcio della sua bella lettera, ricca di spunti.
IL MITO DI PIGMALIONE
Critica ragionata al mito del talento
Condivido in parte alcuni passaggi di un post in cui facevi riferimento al mito del talento (per altro già letto anche negli scritti di Trabucchi) per cui le aziende sono alla ricerca del “fenomeno” che una volta assunto risolverà buona parte dei problemi; questo poi, in assenza di un’organizzazione o meglio di una struttura organizzativa che lo accolga, finirà nella linea grigia del personale generico e i problemi resteranno sempre in agenda. Condivisibile.
Vorrei spingere oltre l’analisi e focalizzarci su quelle che sono le aziende in cerca del talento: di norma sono proprio quelle che NON hanno alcuna struttura organizzativa, sono quelle che sono in fase di crescita e sono guidate dai fondatori per cui non sentono tanto il bisogno di una struttura quanto quello di un alter ego che con intraprendenza “risolva i problemi”. In sintesi queste aziende dovrebbero invece dedicare risorse per strutturarsi e poi mettersi alla ricerca della persona giusta. E quale è la persona giusta?
Condivido che il “talento” è una chimera ma vorrei anche sfatare il mito di Pigmalione: come può pensare un’azienda di assumere una figura senza esperienza fruibile e senza competenze? Mi sono sentito rispondere: “Basta che abbia voglia di fare!!!” ovvio che è condizione necessaria ma non è sufficiente se l’azienda non ha la struttura che la possa far crescere, la possa formare e la possa anche selezionare.
Facendo sempre riferimento a una metafora molto significativa, che hai portato durante un nostro incontro in azienda, relativo a come sono evolute le organizzazioni: 50 anni fa organizzate come l’esercito Napoleonico oggi come un commando. Verissimo, tant’è che i commando sono formati da personale altamente addestrato e selezionato: sicuramente non sono tutti talenti ma altrettanto sicuramente non sono i primi 5 furieri del battaglione. La differenza la fa l’organizzazione dell’azienda che è in grado di selezionare e poi formare, cioè dare al personale, competenze e metodo, per svolgere al meglio il proprio compito: in sintesi quanto più una struttura organizzativa è eccellente tanto più sarà facile che del personale normo dotato possa essere messo nelle condizioni di poter raggiungere i propri obiettivi (che sono quelli aziendali)
Come si costruisce una struttura organizzativa?
“Non confondere gli sforzi con i risultati”
Durante un meeting di aggiornamento, dopo aver descritto tutto quanto era stata fatto dal gruppo di lavoro per risolvere un problema tecnico molto grave, l’ing. C. ( allora il titolare per cui lavoravo) mi disse quanto sopra, con tono paterno (per chi non lo sapesse l’ing. C. è noto per essere nei primi posti della classifica del Sole 24 ore degli imprenditori più irascibili d’Italia ). Fu proprio il modo con cui me lo disse che me lo impresse a fuoco (il problema comunque lo avevo risolto).
In sintesi all’azienda non dovrebbe interessare quante ore di straordinarie hai fatto, piuttosto l’efficienza con cui hai risolto il problema che ti era stato affidato. Per quanto possa essere banale, ho visto spesso quadri/dirigenti aziendali stare in azienda fino alle 8 di sera tutti i giorni per anni: ma gli stessi problemi restavano sempre in agenda. E allora cosa facevano? Mai nessuno lo sapeva con certezza ma una cosa era certa: i loro responsabili valutavano solo la loro presenza in azienda. Dovremmo andare a fondo a questa convinzione perché sono certo che i responsabili in oggetto non erano dei malati di mente, piuttosto la loro crescita professionale era avvenuta in un periodo in cui sforzo=risultato o meglio, lavoro=fatica, o ancor meglio fatica=soldi. Periodo storico in cui c’era poco da pensare e bisognava solo muovere le mani.
Questa visione del lavoro si traduce in selezioni dei candidati errate che unitamente al mito di Pigmalione diventa un mix esplosivo: si finisce per costituire un commando fatto di scavatori di trincee. Si finisce a dover collaborare con quadri che scrivono tabelle da 200 voci a mano su fogli di carta: ovviamente le 4 ore che impiegano per farlo sono fatte durante lo straordinario e i colleghi in cambio avranno delle informazioni inutilizzabili.
Un’ulteriore lettura (magari più profonda) potrebbe essere quella che la presenza, per così dire h24, è realmente necessaria in quanto l’ordinaria gestione dell’azienda è di tipo emergenziale (pronto soccorso produzione) pertanto la presenza oltre l’ordinario copre/permette di gestire l’emergenza.
Se così fosse, potremmo fare il punto di sintesi: la “non-organizzazione” di tipo emergenziale ha bisogno di risorse disposte a passare 12 ore in azienda e questo viene visto come una cosa buona; in ultima analisi l’organizzazione alimenta il proprio male compiacendosi.
(F., mail di ottobre, pubblicata con l’autorizzazione dell’autore)
La stupidità deriva dall’avere una risposta per ogni cosa. La saggezza deriva dall’avere, per ogni cosa una domanda (Milan Kundera).
Più che le risposte sono le domande a indicare il percorso nel quale una ricerca originale si dovrebbe muovere e F. ne pone parecchie e affatto banali.
La persona giusta
Definire le caratteristiche della “persona giusta” è, di fatto, impossibile.
La scelta dipende dalle condizioni specifiche dell’azienda e ovviamente dagli obiettivi che si vogliono ottenere con l’inserimento della nuova persona.
A volte i requisiti del potenziale candidato sono appena abbozzati, più precisi quando si tratta di competenze tecniche, molto sfumati quando si riferiscono alla parte “soft”.
All’apice del boom del punto-com degli anni Novanta, alcuni dirigenti della McKinsey & Company, la più grande e prestigiosa società di consulenza manageriale degli Stati Uniti, lanciarono quella che chiamarono la “guerra dei talenti”. Migliaia di questionari furono inviati a manager di tutto il paese. Diciotto aziende furono selezionate come meritevoli di speciale attenzione, e i consulenti passarono fino a tre giorni in ognuna di esse intervistando tutti, dal direttore generale al personale delle risorse umane. La McKinsey voleva documentare come le imprese di maggior successo degli Stati Uniti differissero dalle altre nel modo di affrontare questioni quali le assunzioni e promozioni. Ma, nel passare al setaccio cumuli di rapporti, questionari e trascrizioni di interviste, i consulenti si convinsero sempre di più che la differenza tra vincenti e perdenti era più profonda di quanto avessero immaginato. “Allora ci siamo guardati in faccia e improvvisamente si è accesa la lampadina” scrivono nel loro libro, La guerra dei talenti, i tre consulenti a capo del progetto, Ed Michaels, Helen Handfield-Jones e Beth Axelrod. Le società migliori, fu la loro conclusione, avevano capi ossessionati dal problema talento. Facevano continue selezioni, assumendo il maggior numero possibile di candidati che promettessero le massime prestazioni. E, una volta individuate le loro star, le segregavano, rimunerandole al di fuori di ogni misura e spingendole in posizioni sempre più elevate.
(…) Il successo nell’economia moderna, secondo Michaels, Handfield-Jones e Axelrod, richiede the talent mind-set, “una mentalità orientata al talento”: “la convinzione profonda e radicata che disporre dei talenti migliori a tutti i livelli è la via per battere la concorrenza”.
(…) Nessuno, tuttavia, ha diffuso il verbo con tanta passione come la McKinsey e, fra tutti i suoi clienti, una società ha preso a cuore più di qualunque altra la mentalità orientata al talento. Si tratta di un’impresa in cui la McKinsey ha portato avanti venti progetti diversi, in cui le fatture emesse dalla McKinsey hanno superato i dieci milioni di dollari all’anno, in cui un dirigente della McKinsey ha regolarmente partecipato ai consigli di amministrazione, e il cui stesso amministratore delegato era un ex socio della McKinsey. Stiamo parlando, come si sarà capito, della Enron.
Lo scandalo Enron risale al 2001. La reputazione di Jeffrey Skilling e Kenneth Lay, i due più alti dirigenti dell’impresa, ne è uscita distrutta. Arthur Andersen, suo revisore dei conti, è stato pressochè espulso dal mondo degli affari, e ora gli investigatori hanno rivolto la loro attenzione alle banche d’investimento della Enron. L’unico partner della società a esserne uscito in larga misura illeso è la McKinsey, il che è strano dato che fu lei, sostanzialmente, a creare il modello della cultura Enron. Lei era la società del “talento” per eccellenza.
(Malcom Gladwell – Avventure nella mente degli altri)
Qui sotto, per chiarezza, un breve sunto della storia della Enron:
La storia della Enron.
Nel 2001 la Enron improvvisamente fallì. L’avvenimento giunse del tutto inaspettato poiché ufficialmente l’azienda negli ultimi dieci anni aveva avuto una crescita molto rapida, decuplicando il proprio valore e raggiungendo il 7º posto nella classifica delle più importanti multinazionali degli USA. Tuttavia nel giro di pochissimo tempo le azioni Enron, da tutti considerate solidissime, persero tutto il loro valore, passando dalla quotazione di 86 dollari a 26 centesimi, bruciando così circa 60 miliardi di dollari nel giro di tre mesi.
Ciò portò numerosi dipendenti a gravi difficoltà, poiché era stata fatta loro una proposta che permetteva loro di acquistare le azioni della società e non poterono far nulla per ripararsi dal disastro.
Dopo la bancarotta fraudolenta, il Congresso aprì una commissione d’inchiesta e gli amministratori vennero rinviati a giudizio e condannati a pene detentive comprese tra i 18 mesi e i 24 anni. Jeff Skilling, amministratore delegato e “regista” della colossale truffa finanziaria venne condannato a 24 anni di reclusione, successivamente parzialmente ridotti, mentre Ken Lay, presidente ed amministratore delegato a seguito delle dimissioni di Skilling, morì d’infarto prima della condanna. Gli altri responsabili che collaborarono con la giustizia non riuscirono ad evitare pene comunque severe (2, 3 e 10 anni di reclusione).
(Wikipedia)
E’ interessante notare che il mito del talento, insieme a tante altre leggende metropolitane, continua imperterrito a durare e a trovare ancora tanti fautori convinti.
Certo che se mancano competenze specifiche e se l’azienda non è in condizione di formare il suo personale, deve trovare sul mercato le necessarie skill. Molte volte però, si vuole evitare la fatica di formare il proprio personale ed è quindi più facile “comprarlo” sul mercato già addestrato, anche se nel vuoto spinto e nel disinteresse che caratterizza molte organizzazioni, quel talento finirà per ingrossare le file delle “promesse mancate”…
E’ interessante quanto scrive Gladwell nel libro sopra citato:
Il più grande errore della McKinsey e dei suoi accoliti alla Enron fu di presupporre che l’intelligenza di un’organizzazione non è che una funzione dell’intelligenza dei suoi dipendenti. Essi credevano nelle star perché non credevano nei sistemi. Da un certo punto di vista è comprensibile, tanto è evidente che le nostre vite sono arricchite dalla genialità individuale. I gruppi non scrivono grandi romanzi, e non fu una commissione a concepire la teoria della relatività. Ma le aziende funzionano obbedendo a regole diverse. Non si limitano a creare; eseguono, competono, e coordinano gli sforzi di molte persone diverse, e le organizzazioni che hanno più successo in questo sono quelle in cui la star è il sistema.
Esercito napoleonico e commando
L’organizzazione simile a quella dei gruppi di commando non è, purtroppo, affatto tipica delle organizzazioni di oggi, rimaste ai tempi di Napoleone: uno pensa e ordina e tutti gli altri eseguono…
Organizzazione dell’azienda
Selezionare e formare (competenza e metodo): certamente si.
Sulla formazione, sulle sue caratteristiche e modalità, potremmo dire molto. La verità è che in molte organizzazioni molta formazione è fatta male o si rivolge a competenze già superate e in altre è totalmente mancante. Le prove a sostegno di quanto dico? Chi passa del tempo in azienda sa a cosa mi riferisco (sig!).
E abbiamo la bellissima metafora del commando che scava trincee.
Le trincee simbolo della guerra di posizione, ci ricordano il pantano e la “no man’s land” della Prima Guerra Mondiale.
Le trincee non erano scavate dai commando (che all’epoca si chiamavano “arditi”) ma dai fanti che combattevano una guerra disperata e inutile. I fanti venivano mandati all’assalto per essere brutalmente trucidati dal fuoco delle mitragliatrici nemiche in una corsa tragica verso la morte. Assalti che culminavano in massacri terrificanti per ottenere vittorie sanguinose consistenti nello spostamento del fronte di pochi metri.
Fortunatamente i “fanti aziendali” non cadono uccisi sul campo, non ci sono morti o feriti e l’unica cosa che finisce è la motivazione, l’intelligenza e l’impegno destinati a sostenere con sforzo immane sistemi e processi difettosi, nell’indifferenza, a volte, di un management distratto e più attento al risultato (il fronte che si sposta di pochi metri), orientato solo al “cosa” e ignaro del “come”.
Forse, invece di spendere energie a scavare trincee per nascondersi in un buco del terreno, dovremmo ripensare
al modo con cui facciamo le cose,
alla cultura che vogliamo creare (il fare),
a costruire le necessarie competenze,
a una gestione più moderna e innovativa.
Forse alcuni manager e imprenditori temono, come Federico II, Re di Prussia, che:
Se i miei soldati cominciassero a pensare, nessuno rimarrebbe nelle mie file.
E’ forse per questo che preferiscono gli scavatori di trincee?
Design a better world.
Buona settimana
Massimo