Crescete e moltiplicatevi: andate, investite e conquistate il mercato. Prima solleviamo la polvere e poi diciamo di non poter vedere.
Berkeley
L’evento di venerdì –Industry 5.0. La VERA rivoluzione delle rivoluzioni – si è concluso e ancora mi riecheggiano in mente i tanti commenti e le numerose discussioni.
Abbiamo cercato di abbassare la polvere e poter, così, finalmente vedere.
Naturalmente abbiamo preso spunto dal tanto parlare che si fa di Industry 4.0, legato anche ai finanziamenti in arrivo con l’ultima legge di bilancio.
Sembra che il termine sia stato utilizzato per la prima volta alla fiera di Hannover nel 2011.
Ho già scritto a più riprese sul tema, ma vorrei, prima di accantonare l’argomento tra le ultime mode del momento, fare un’ultima riflessione che è poi quella che ha caratterizzato il mio intervento di chiusura della giornata.
Molti hanno sollevato una cortina di polvere sul tema manipolando le informazioni o dandone quantomeno una visione di parte. E’ ovvio che anche alla luce dei finanziamenti dietro a Industry 4.0, vi sia un potenziale mercato da sfruttare.
Proviamo fare un po’ di ordine.
I primi due temi da affrontare sono: i finanziamenti e la tecnologia, inestricabilmente collegati.
Finanziamenti
Non c’è ombra di dubbio che le aziende italiane siano sottoposte a una fortissima pressione fiscale e a tutta una serie di inutili e costosissimi adempimenti che gravano come macigni, con tutta una serie di costi aggiuntivi che imprese di altre paesi non hanno.
Tutto questo rende molto difficile e complicato il loro operare sul mercato.
La stranezza è che invece di curare la causa del problema (tasse, lacci e laccioli), si intervenga con finanziamenti che avranno la caratteristica, come sempre, di favorire quelle aziende che possono permettersi investimenti importanti e non altre aziende più limitate nelle capacità di spesa.
Prorogato per un anno il superammortamento del 140%, fino al 31 dicembre 2017. Viene poi introdotto un iperammortamento al 250% per i beni digitali, legati a Industry 4.0, che saranno dettagliati in uno specifico elenco.
(ilsole24 ore – 16 ottobre 2016)
In sostanza, anticipare le quote di ammortamento vuol dire sostenere più costi e quindi pagare meno tasse.
Certamente le aziende fanno bene a utilizzare la possibilità prevista dalla manovra finanziaria, ci mancherebbe altro, ma ciò detto mi rimangono parecchie perplessità sull’equità e la correttezza di un’operazione del genere.
Tecnologia
In “Milano Città Steam. La visione di Assolombarda per Milano”, leggiamo:
(…) Tra i punti di debolezza del sistema produttivo regionale va evidenziata la necessità di aggiornare il parco macchine del manifatturiero. Le macchine installate nelle aziende italiane oggi sono molto più vecchie di dieci anni fa: non fa eccezione la Lombardia dove l’età media del parco macchine è di 12 anni e 8 mesi, la quota di macchine utensili con età superiore ai 20 anni è il 27% del totale e i macchinari di età non superiore ai 5 anni pesano appena il 13%.
E quindi?
Intanto la debolezza del sistema produttivo regionale a mio avviso non è nel parco macchine ma sta da un’altra parte.
Non vi è dubbio che se mancante di una qualche tecnologia rilevante, un’azienda farebbe bene a procurarsela, ma l’età dei macchinari è ininfluente dal punto di visto competitivo.
S’insinua tra le righe un’idea profondamente sbagliata e cioè che per essere competitivo si debba avere sempre l’ultimo gadget tecnologico.
Idea sbagliata per diverse ragioni:
il costo di produzione è oramai per molte aziende una delle voci di costo e neanche la più rilevante;
l’efficienza di una supply chain dipende più dal funzionamento efficiente dell’intero sistema che da un miglioramento di efficienza puntuale di una parte di essa;
la tecnologia non è mai un fattore differenziante ma semmai è un acceleratore.
Credere che il possesso dell’ultima tecnologia renda un’azienda più competitiva significa ignorare quanto siano importanti altri aspetti: come usare quella tecnologia, per produrre quali prodotti e per realizzare quale strategia, come introdurla con successo sul mercato e così via, tanto per citare qualche esempio.
Perché la tecnologia affascina imprenditori e manager?
Perché è finanziata e perché è una soluzione facile.
Non sono contrario alla tecnologia e non vorrei apparire un seguace del luddismo (luddismo: Movimento operaio nato in Gran Bretagna negli anni 1810, con l’obiettivo di sabotare le macchine introdotte nelle industrie – ritenute causa di disoccupazione e di bassi salari. Mentre l’origine del nome è questione controversa (sembra discendere dal nome dell’operaio N. Ludd, sabotatore di un telaio nel 1779), le ragioni della nascita possono essere probabilmente individuate nei problemi sociali e politici che accompagnarono la rivoluzione industriale inglese, nonché la crisi economica sperimentata dalla Gran Bretagna nel corso delle guerre napoleoniche. Fonte Treccani).
La tesi che sostengo è che l’industria italiana (intesa in senso ampio: prodotti e servizi) soffre di un problema che non è tecnologico ma ha cause molto più profonde e serie: è obsoleta, vecchia e non riesce a liberarsi di tutta una serie di vincoli che prima di tutto sono costituiti da metodi, modelli e schemi di pensiero da prima rivoluzione industriale.
E’ come se per molte aziende, purtroppo, il mondo si fosse fermato trenta o quaranta anni fa (mi scusino i lettori per una generalizzazione che non tiene conto di alcune eccezioni che per fortuna esistono, anche se molto limitate numericamente).
E’ sorprendente che accademici, istituzioni e associazioni industriali, non abbiano il coraggio di riportare al centro della discussione un problema che rischia di distruggere il tessuto industriale italiano già fortemente compromesso da tutta una serie di scelte sbagliate e superate.
Un’analisi illuminante è contenuta nel bel libretto di Luciano Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, che proprio nella prima di copertina scrive: Politici e manager senza visione del futuro hanno trasformato l’Italia in una colonia industriale. Per recuperare terreno occorre una politica economica orientata verso uno sviluppo ad alta intensità di lavoro e di conoscenza.
Nel XXI secolo, non meno che nei due secoli precedenti, un paese che non possegga una grande industria manifatturiera, l’industria in senso stretto, rischia di diventare una sorta di colonia, subordinata alle esigenze economiche, sociali e politiche di altri paesi che tale industria posseggono. Ciò vale in modo particolare per quei settori industriali che pur essendo nati decenni addietro, come l’informatica o l’elettromeccanica, o addirittura secoli, come la chimica e poi l’auto e l’aeronautica civile, sono oggi più che mai da considerare essenziali per l’economia del terzo millennio.
(…) Facendo riferimento ai settori sopra richiamati e al peso che continueranno ad avere nel prossimo futuro sulle economie e le società del globo, si constata infatti che in poco più di quarant’anni, all’incirca dal 1960, il nostro paese ha perduto o drasticamente ridimensionato la propria capacità produttiva in settori industriali nei quali aveva occupato a lungo un posto di primo piano a livello mondiale. E’ il caso dell’informatica, della chimica, dell’industria farmaceutica. L’Italia è altresì uscita quasi completamente da settori che sembravano avviati ad una forte crescita produttiva all’epoca del boom economico post-bellico, quali l’elettronica di consumo, formata in quel primo periodo principalmente da radio e televisori, impianti per l’alta fedeltà e registratori audio e video.
Ciò è avvenuto sebbene i livelli di consumo dei beni di tale comparto, sollecitati da un tasso di innovazione senza precedenti, siano stati in seguito e permangano elevatissimi, come mostra al presente l’eccezionale diffusione dei telefoni cellulari e dei DVD, alimentato peraltro unicamente da marchi esteri.
(Luciano Gallino. La scomparsa dell’Italia industriale)
Sebbene il libro del professor Gallino sia del 2003, molte sue considerazioni e analisi, mantengono intatta la loro validità.
A queste considerazioni ed evidenze di ordine generale, possiamo aggiungerne altre:
crescita molto bassa del PIL nazionale rispetto ad altri paesi europei;
diffusa demotivazione e disimpegno tra i dipendenti;
professionalità e competenze in calo a tutti i livelli;
aziende italiane riconosciute a livello mondiale per i prodotti e il design ma quasi mai citate come esempi di eccellenza nella gestione;
processi di innovazione e sviluppo frammentati e non strutturati;
ambienti di lavoro uniformi, a cubicolo, con uffici che sembrano la copia di quelli dei film di Fantozzi;
investimento molto basso in formazione e sviluppo delle competenze a tutti i livelli: da operai e impiegati a manager;
supply chain strutturalmente deboli;
fornitori da spremere e non partner con i quali sviluppare il business;
modelli di management anni ’70;
associazioni di categoria autoreferenziali, che invece di sollecitare e stimolare innovazione insistono sulle vecchie ricette di sempre;
passaggio generazionale gestito in pochi casi molto bene, in alcuni casi sufficientemente, in molti casi molto male;
one man show;
una mancanza di fiducia diffusa in tutta l’organizzazione;
comando e controllo come strumento principale di gestione;
non conoscenza di tutta una serie di nuovi strumenti, ricerche e metodi moderni e innovativi;
paura di sperimentare;
chiusura al mondo, con organizzazioni dove tutto è interno e l’apertura verso l’esterno è vista con diffidenza e sospetto.
Potrei continuare ancora a lungo…
In sintesi molte aziende italiane sono vecchie, antiche… gestite secondo idee del passato.
E queste idee superate sono le più difficili da sradicare, per questo è meglio spostare il focus sui gadget tecnologici.
Naturalmente, molte di queste criticità non sono solo italiane, sono causate da un mondo che si è fatto sempre più veloce e sempre più imprevedibile e quindi si trovano anche in altri paesi.
Quello che in pochi hanno il coraggio di dire è che ci vuole una RIVOLUZIONE del pensiero e dell’agire.
Un cambiamento di ampio respiro.
Non c’è più tempo per i pannicelli caldi.
Sto parlando di coraggio nel voler cambiare, di innovazione, di investire prima sulle persone che sulle tecnologie, di nuovi paradigmi nella gestione d’impresa, in altre parole di progettare l’azienda Industry 5.0, l’azienda del futuro.
Solo quelle aziende che riusciranno a farlo saranno, tra 5 e 10 anni, i modelli di cui parleremo.
Ho detto ripetutamente che la tecnologia del management deve essere reinventata e che sarà reinventata. L’unica domanda è: chi lo farà? A questo punto dovreste aver capito che il ritorno economico va ben oltre la sconfitta dei concorrenti o la conquista di una nota a piè pagina negli annali della storia del management. C’è una ragione più profonda e più nobile per raccogliere la sfida dell’innovazione manageriale, ed è un’opportunità storica. Per la prima volta dalla nascita dell’era industriale, l’unico modo per costruire un’azienda in grado di affrontare il futuro è crearne una che sia in linea con le esigenze degli esseri umani. Questa è la vostra occasione – l’occasione di costruire un modello di management per il XXI secolo che promuova, premi e sostenga veramente l’iniziativa, la creatività e la passione – questi ingredienti delicati ed essenziali per il successo economico del nuovo millennio. Fatelo, e avrete costruito un’organizzazione pienamente umana e pienamente preparata per le straordinarie opportunità che si prospettano all’orizzonte.
(Gary Hamel – Il futuro del management)
Follia è fare sempre la stessa cosa e aspettarsi risultati diversi.
Albert Einstein
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Buona settimana
Massimo